Il rapporto annuale di Amnesty International non lascia dubbi: la pena di morte nel mondo è tutt’altro che debellata. Secondo l’indagine condotta dall’organizzazione, il 2023 ha visto il maggior numero di esecuzioni dell’ultimo decennio. È importante precisare che le cifre a supporto di questa conclusione sono comunque una stima al ribasso, sono infatti diversi i paesi ad applicare ancora la pena capitale in cui i dati sulle condanne a morte sono protetti dal segreto di Stato. Tuttavia, anche a fronte di questo panorama desolante, esiste una nota positiva: il numero dei paesi che hanno condotto esecuzioni è ai minimi storici. Solo 16 Stati nel mondo ancora eseguono condanne a morte, delle mosche bianche sempre più isolate nell’arena internazionale. Una magra consolazione di fronte a una pratica il cui presunto potere preventivo non trova fondamento in alcuna evidenza scientifica.
La pena di morte nel mondo
Come evidenziato nel report: “Amnesty International ha registrato 1.153 esecuzioni nel 2023, un aumento del 31% (270) rispetto alle 883 del 2022. Si tratta del numero più alto registrato da Amnesty International dal 2015, quando si erano raggiunte 1.634 esecuzioni, e della prima volta dal 2016 (1.032) che il totale supera nuovamente le mille unità”. I cinque paesi che hanno eseguito più condanne a morte sono Cina, Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti d’America.
Andando a analizzare più nel dettaglio i dati sulla pena di morte nel mondo osserviamo come
“Il profondo incremento delle esecuzioni è stato dovuto soprattutto all’Iran, le cui autorità hanno mostrato un totale disprezzo per la vita umana con un aumento delle esecuzioni per reati di droga che, ancora una volta, ha messo in luce l’impatto discriminatorio della pena di morte sulle comunità più povere e marginalizzate dell’Iran”
ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
La Cina “conquista” il primo posto nonostante le stime non includano la presunte miglia di esecuzioni che, si presume, siano state portate a termine nel paese. Dall’elenco dei paesi con il maggior numero di condanne, sono giocoforza esclusi Stati come Corea del Nord e Vietnam, per i quali non esistono dati attendibili. In diversi paesi dell’Africa sub-sahariana è aumentato sia il numero delle condanne a morte che quello delle esecuzioni.
Per quanto la situazione non sembri migliorata rispetto al passato, fortunatamente, alcuni progressi si fanno sentire: Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sud Sudan non hanno visto la conclusione di nessuna esecuzione. Una dimostrazione del fatto che l’attivismo volto a promuovere agende politiche focalizzate sul rispetto dei diritti umani funziona davvero.
Ma la pena di morte funziona? Spoiler: no.
La pena di morte è unanimemente condannata dalle organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti fondamentali, poiché si tratta di una punizione crudele, inumana e degradante, che viola il diritto alla vita e che, a causa del suo carattere irrevocabile, può essere inflitta ad innocenti senza la possibilità di rimedio. Si tratta inoltre di una pena abolita nella legge o nella pratica da più di due terzi dei pasi nel mondo, una realtà che segnala l’esistenza di un’opinione pressoché condivisa sulla illegittimità della condanna a morte.
Se qualcuno volesse tralasciare l’imprescindibile dato umano dalla questione, per focalizzarsi solo sull’efficacia della pena capitale nel prevenire determinati reati particolarmente gravi, rimarrebbe deluso. Nessuno studio ha mai dimostrato che la pena di morte eserciti un maggior deterrente rispetto ad altre punizioni. Al contrario, alcune analisi hanno evidenziato come il tasso di omicidi sia in realtà più alto negli Stati che infliggono la pena di morte rispetto a quelli in cui la pratica è stata abolita. Ma non solo: è stato dimostrato che il tasso degli omicidi aumenta rapidamente dopo le esecuzioni. In conclusione, sotto ogni profilo, la risposta alla domanda “ma la pena di morte funziona?” è un incontrovertibile “no”.
Elena Miscischia