Di Adriano Ercolani
In questi giorni sta divampando una polemica feroce (quanto pretestuosa) sull’imbrattamento della statua dedicata a Indro Montanelli nei giardini a lui intitolati a Milano.
Il dibattito scaturisce dalla richiesta dei Sentinelli di Milano di rimuovere gli omaggi cittadini a un intellettuale dotato senza dubbio di intelligenza affilata e di una penna elegante ma dalle idee molto controverse (arrivò a invocare Pinochet in caso di vittoria elettorale della sinistra e negò gli orrori del colonialismo italiano) e dalla condotta, come vedremo, non propriamente limpida.
Una polemica ferocemente polarizzata, ma non, come spesso capita, tra chi cade nella trappola della turpe propaganda di Estrema Destra (o la cavalca biecamente) e chi vi si contrappone: stavolta lo scontro è tra coloro che comunemente si chiamano “intellettuali di sinistra”.
Da un lato c’è chi s’indigna per le azioni riprovevoli commesse dal giornalista (non solo l’aver acquistato una sposa bambina dodicenne in Abissinia, ma l’averlo rivendicato con disinvoltura sorniona fino agli ultimi anni di vita), dall’altro chi ne difende a spada tratta la memoria, allargando ad ampio giro il discorso con considerazioni (in generale valide ma spesso tirate fuori contesto, in piena logica benaltrista) sul valore della storia, sull’esigenza di separare l’intellettuale dall’uomo, sul rifiuto di rimuovere il passato.
Io non posso che sogghignare: avevo, infatti, previsto questo cortocircuito ai tempi del movimento #jesuischarlie, nato per esprimere solidarietà alle vittime della strage commessa da estremisti islamici nella sede parigina della rivista satirica Charlie Hebdo.
Intendiamoci (purtroppo di questi tempi bisogna sottolineare l’ovvio): ovvia è la condanna per la barbarie nei confronti dell’orribile strage e il cordoglio sentito per le vittime.
Ciò che notavo era il travolgimento di ogni discernimento e distinguo sull’onda emotiva e virale del movimento di massa.
Da un lato un potente moto collettivo di solidarietà, in nome di un principio sacrosanto come la libertà di espressione, dall’altro una pericolosa tendenza a portare il cervello all’ammasso, come si diceva nella Prima Repubblica.
Ora, ogni movimento di rivolta culturale di massa (pensiamo ai più recenti, dal #metoo al #blacklivesmatter, entrambi sostenuti dal sottoscritto), soprattutto in questi tempi dove il dibattito è scioccamente polarizzato dalle discussioni spesso sterili sui social network, porta con sé eccessi, forzature, storture, generalizzazioni grossolane, processi sommari tenuti da quel giudice umorale e dispotico che è l’opinione pubblica.
Se è vero che la storia è una dialettica di forze contrapposte, come alcuni pretendono di contestualizzare qualcosa di orrendo come lo stupro legalizzato di una bambina, così è necessario dover contestualizzare le attuali proteste.
Nel caso di #jesuischarlie quello che consigliavo, rischiando pericolosi fraintendimenti, era di fare attenzione a identificare la superiorità della cultura occidentale con il diritto a insultare la religione altrui, perché in futuro per coerenza non ci saremmo poi potuti più offendere di nulla che avrebbe potuto urtare la nostra sensibilità “progressista”.
Alcuni autori (come ad esempio il fumettista Gipi e il vignettista satirico Mario Natangelo) sono sempre contro la censura, senza se e senza ma.
Li rispetto molto per questo.
Altri opinionisti, però, saltati sul carro della difesa della libertà d’espressione nel caso di condanna unanime dell’attentato terroristico, sono i primi a indignarsi (talvolta anche comprensibilmente) quando qualcosa urta la loro sensibilità, che sia una battuta di Ricky Gervais sui trans, una canzone di Eminem dagli accenti misogini o una scena blasfema di Lars von Trier.
Come la mettiamo?
Era rischioso dirlo in quei giorni (oltre al sottoscritto, ricordo solo, con differenti motivazioni, Raffaele Alberto Ventura e Zerocalcare come voci fuori dal coro), ma è il caso di ricordare il concetto espresso da Giorgio Gaber quando nei primi anni ’80, con grande coraggio affrontò il tabù della critica politica alla figura di Aldo Moro:
“Ma io se fossi Dio/ non mi farei fregare da questo sgomento/e nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio/perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio”.
Se l’Isis avesse bombardato la sede di “Libero” o CasaPound per le loro affermazioni anti islam, saremmo scesi in piazza urlando #jesuisbelpietro o #jesuisiannone?
Ve lo dico sinceramente: io no.
Non è un caso che una simile contraddizione emerga proprio leggendo le opere di George Wolinski, la vittima più nota dell’orribile attentato terroristico del 2015.
Esempio perfetto è Paulette (ripubblicata ora meritoriamente da Oblomov), creata col maestro del fumetto erotico estremo Georges Pichard, un’opera che se da un lato sfida ogni censura, dall’altro potrebbe essere ritenuta offensiva da molti ierofanti del cosiddetto “politicamente corretto” (definizione spesso di comodo e distante dal significato originale).
Parliamo del fumetto: dei primi anni’70, pubblicato a puntate in Italia su Linus, racconta le vicende di Paulette, una giovane miliardaria di simpatie comuniste, bellissima e irresistibilmente procace, che attraversa con superiore leggerezza le vicende socio-politiche della contemporaneità.
Il punto è che la protagonista è preda di una serie di rocambolesche avventure, piene di eccessi iperbolici e umorismo grottesco, in cui è costantemente oggetto di pesanti attenzioni erotiche, rapimenti a scopo sessuale, tentativi di stupro, molestie continue.
Eppure, come una Justine sadiana al contrario, Paulette passa indenne attraverso ogni pericolo: in parte perché assistita dalla fortuna, in parte perché compiaciuta, in parte perché erotomane, in parte perché benedetta da una grazia sensuale che la rende immune a ogni pericolo.
Disegnata con forme morbide e un fascino prorompente, dotata di un umorismo surreale e disarmante, Paulette viene spesso considerata la risposta francese alla Valentina di Crepax, ma in realtà in lei c’è molto della serialità ossessiva per le sventure dei personaggi femminili tipica del ‘700 francese: da Cunegonda nel Candide di Voltaire ad appunto la Justine sadiana.
Ora, letta con la mentalità dell’epoca e con uno spirito provocatorio, la raffigurazione della protagonista può essere vista come un omaggio alla bellezza femminile, capace di subire l’ottuso desiderio maschile senza scomporsi, disinnescandone la violenza nel capovolgimento della propria voracità sessuale.
L’atmosfera generazionale è quella di un film come Avere vent’anni in Italia (film che in una versione censurata aveva un finale orribile e violentissimo), il cui spirito è in parte rievocato dalle ultime tavole del primo volume di Paulette, in una vaga prefigurazione di Thelma & Louise.
Eppure, secondo i canoni vigenti in molti ambienti progressisti (gli stessi in cui circolava all’epoca), l’opera è dichiaratamente sessista: la donna sembra ridotta a un oggetto sballottato tra un desiderio maschile e un altro, la raffigurazione è potentemente sessualizzata, la brutalità (benché sfumata giocosamente) è presente in quasi ogni pagina, anzi il motore stesso della vicenda è la costante fuga da un tentativo di rapimento, seduzione, stupro a un altro.
Come ci poniamo, adesso, anime belle: celebriamo la libertà d’espressione o ci indigniamo contro un’opera sessista?
Siamo tutti Charlie, ancora?
Chiariamoci, a me va benissimo.
Come ho scritto più volte in questi giorni sui social, leggo Céline e Pound, ascolto Wagner ed Eminem, studio Tucci ed Eliade, apprezzo esteticamente le opere di Leni Riefensthal.
E non dico nonostante, ma proprio perché sono antifascista, antisessista e antirazzista.
Per me le risposte sono sempre complesse, bisogna valutare sempre caso per caso, con discernimento e conoscenza approfondita del contesto.
Benedetto sia Francesco Guicciardini per averci ricordato il valore del “particulare” e della “discrezione”: “È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circunstanzie, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione ed eccezione non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.”.
Quindi, se da un lato considero la “cancel culture” una follia, d’altro considero inopportuno erigere una statua a un fautore del colonialismo razzista solo perché aveva il dono di uno stile raffinato.
Se la “contestualizzazione storica” può comprendere e attenuare il razzismo e il sessismo di personaggi del passato, può anche spiegare l’istinto contemporaneo di protestare contro simboli di oppressione e schiavitù.
E quindi, non vi scandalizzate se proprio io, che non ero Charlie, riesco ad apprezzare le provocazioni immaginifiche di Wolinski e Pichard.