Patrick Zaki: la storia di un Egitto che reprime il dissenso e calpesta i diritti

Giunge finalmente l’attesa notizia per Patrick Zaki, lo studente egiziano detenuto da 22 mesi nel carcere cairota di Tora, in Egitto: è stato firmato l’ordine di scarcerazione. Vinta la battaglia, ma non la guerra: sarà finalmente libero, anche se non è stato ancora assolto dalle infondate accuse di aver diffuso notizie false tramite articoli di giornale.

Proviene dal Tribunale di Mansura, in Egitto, l’annuncio di scarcerazione dello studente egiziano dell’Università di Bologna, diventato, suo malgrado, famoso in tutto il mondo per essere stato ingiustamente arrestato sulla base di accuse decisamente infondate. Il ragazzo resterà libero fino alla prossima udienza, fissata per il primo febbraio, ma la notizia della sua scarcerazione rappresenta un primo segno di speranza e di vittoria in questa lotta condivisa contro l’ingiustizia e la negazione dei diritti umani. Alla sua battaglia si è unita l’Italia intera che, a partire dal 2 dicembre, si è mobilitata tramite l’organizzazione di diverse manifestazioni proprio in attesa di questa decisiva udienza.

Una causa per la quale ci si batte da nord a sud, e che rivendica la libertà di espressione e la difesa dei diritti umani. La notizia della liberazione arriva, quindi, in un clima segnato dall’indignazione ma anche da tantissima speranza e fiducia. Coinvolgente la gioia della famiglia, soddisfatti il ministro Luigi Di Maio, che ringrazia il corpo diplomatico per l’obiettivo raggiunto, il sindaco di Bologna Matteo Lepore, che si augura di poter riabbracciare Patrick al più presto, e il Presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che torna a sollecitare la concessione della cittadinanza per Zaki:

Un primo spiraglio, ma non ci basta. Insieme all’Università di Bologna e a tutti coloro che in questi mesi si sono mobilitati, a partire dall’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, continuiamo a chiedere la liberazione definitiva di Patrick.

Il caso dello studente egiziano ha riportato alla luce un problema presente da tempo che sottosta a tutta la vicenda: l’assordante silenzio europeo sulla violazione dei diritti umani in Egitto. Quello di Zaki, purtroppo, non è infatti un caso isolato: la sua storia si collega, ad esempio, a quella del giovane ricercatore Giulio Regeni, che fu rapito, torturato e brutalmente ucciso al Cairo nel 2016 da agenti di sicurezza egiziani. Non a caso, la famiglia di Patrick ha dichiarato che, tra le varie domande poste al figlio durante il suo estenuante interrogatorio, gli era stato chiesto se conoscesse direttamente i Regeni. Mentre la morte di Giulio è rimasta impunita, così come molte altre, il caso di Patrick ha spezzato straordinariamente questo rimbombante silenzio, dando l’occasione all’Italia e all’Unione europea di far sentire realmente la propria voce e la propria presenza contro le ingiustizie perpetrate dal governo egiziano.

La questione critica è proprio quella che riguarda i diritti umani, che in Egitto sono incessantemente e illegittimamente calpestati: come riportato dallo European Council on Foreign Relations, sono migliaia gli attivisti detenuti, molto spesso in seguito a processi sommari, proprio come è avvenuto nel caso di Zaki. Tra 60 e 100.000 i prigionieri politici stimati in Egitto, che è il terzo Paese al mondo, dopo Cina e Turchia, per numero di giornalisti incarcerati, e che conta 1058 oppositori scomparsi dal 2014. A farla da padrone, come spesso accade nel mondo quando parliamo di governi e potere, sono per lo più gli interessi economici. Si sa, l’Italia, che dovrebbe essere in prima linea per chiedere la verità su Giulio e la liberazione di Patrick, ha continuato a intrattenere rapporti con il Cairo, anzi, intensificandoli. Basti pensare alla scoperta, risalente a non molto tempo fa, dell’enorme giacimento di gas Zohr fatta da Eni nelle acque egiziane e alla criticata notizia dell’allora premier Conte per procedere alla vendita di due navi militari italiane all’Egitto. Un supporto e una condiscendenza da parte del governo italiano ed europeo verso un Paese che vive di violenze arbitrarie e politiche repressive.




Oggi, però, un primo passo verso il cambiamento è stato compiuto, e Patrick Zaki potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e riappropriarsi di quella libertà dovuta a ogni essere umano di cui è stato ingiustamente privato.

Patrick Zaki nasce il 19 giugno 1991 a Mansura, in Egitto, da una famiglia che appartiene alla minoranza cristiano copta del paese. Attivista per i diritti umani e ricercatore per Egyptian Initiative for Personal Rights, una Ong egiziana, dove si occupa soprattutto di questioni di genere. Nel 2020 è in congedo all’Università di Bologna per frequentare il Master Erasmus Mundus in Women’s and Gender Studies, una laurea magistrale in studi di genere e delle donne. E arriva il giorno che cambia tutto: l’esperienza a Bologna, infatti, si interrompe quando viene sequestrato all’aeroporto del Cairo, in occasione di quella che avrebbe dovuto essere una vacanza in famiglia. Atterrato nella capitale egiziana il 7 febbraio 2020, Zaki sparisce nel nulla e riappare il giorno dopo, davanti alla Procura della sua città Mansura, in stato di fermo per cinque accuse che potrebbero costargli 25 anni di detenzione: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Tutte accuse infondate, ovviamente. Nel corso del sequestro, si scoprirà più tardi, Zaki viene picchiato, torturato, sottoposto a elettroshock e minacce di ulteriori violenze, anche sessuali. Da questo momento per il giovane attivista inizia un calvario infinito, che lo tratterrà in prigione fino al 7 dicembre 2021.

Nei mesi successivi all’arresto, infatti, era stato trasferito dal carcere di Mansura alla prigione di Tora, al Cairo, nota per ospitare i prigionieri politici, ed era stato detenuto in condizioni dure e degradanti. Per molti mesi gli era stata negata la possibilità di comunicare con l’esterno e di ricevere visite dalla famiglia, e c’erano stati gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le necessarie cure mediche. Ad oggi, l’unica accusa rimasta in piedi, ossia “diffusione di notizie false”, è giustificata semplicemente da un articolo firmato dallo stesso Zaki nel 2019, mentre le altre sono crollate per assenza di prove. Nell’articolo incriminato si parla di discriminazioni subìte dalla minoranza cristiano-copta in Egitto, un contenuto assimilato dagli inquirenti alla propagazione dolosa di fake news.

Chiaramente, Patrick non ha commesso nessun reato, e insieme a lui molti altri detenuti. Tutta questa vicenda mostra, piuttosto, quanto sia repressiva la politica del presidente Abdel Fattah al-Sisi, e quanto la libertà di pensiero e di parola sia ostacolata dal governo, attraverso mezzi che violano dichiaratamente ogni diritto umano e civile. Quello che si teme adesso, infatti, è proprio un nuovo arresto, in base al meccanismo cosiddetto della “porta girevole”, pratica utilizzata dalla magistratura egiziana e denunciata anche da Amnesty International, con cui i giudici incarcerano una persona con nuove accuse poche ore dopo il rilascio, l’assoluzione o il termine dei due anni di detenzione preventiva previsti dalla legge. Dopo la gioia, saranno fondamentali i prossimi passaggi, e il ruolo che giocherà la nostra diplomazia e il nostro governo, caratterizzato, in questa come in tante altre dolorose vicende, da indifferenza ed impotenza, che hanno permesso che un ragazzo senza nessuna colpa, se non quella di avere delle idee proprie e nobili, fosse lasciato in carcere per due anni per aver pubblicato un post su Facebook.

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