Ogni organismo è capace di crearsi i propri anticorpi, anche di fronte ad un’esistenza leggera, color pastello, macchiata unicamente da qualche goccia di birra. Un odore che riempe la pelle, impregna le lenzuola di un letto coniugale; ma è comunque spaventosamente famigliare.
Famigliare, come il cucchiaio che affonda in una tazza colma di cereali tondi come ciambelle farcite di miele, ogni mattina; e una mano virile, tozza ma nervosa, che sfiora una scatola di fiammiferi, i “blue tip”, forse per scorgere al semplice tatto qualche leggera increspatura.
Quella leggera increspatura che, nella vita di Paterson sembra non esserci.
Una minuscola valigetta lo accompagna, come spettatore quasi assente della sua stessa esistenza, al lavoro di tutti i giorni. Una valigetta ordinata minuziosamente, dove ogni cosa è esattamente al suo posto; proprio come dovrebbe essere la mente ordinaria di un autista della linea urbana della città di Paterson.
Paterson, il film. Non è stato amore, non è stata magia, e neanche una scoperta. Nessuna forte emozione, il sangue non mi è salito al cervello, non mi sono dimenticata chi sono. Scordatevi i poeti maledetti, i giorni scambiati per le notti, l’impossibilità materiale di mantenersi un lavoro stabile, un’esistenza vissuta al limite del legale, della quale non resta altro che un’inutile fiaschetta di Ruhm, essiccata al sole. Vedi anche cancro al fegato, Alcool nel sangue, morte prematura. Genio maledetto.
Non accade alcun dramma; il protagonista è immobile nella sua quotidianità ciclica, ripetitiva, dove non è chiamato a compiere nessuna azione straordinaria, se non lasciarsi scivolare di dosso la giornata, con una tranquillità apparente e disarmante. Quasi apatia, o forse empatia, una stoica accettazione della vita così come ci viene incontro, e un’involontaria attesa, che permette al tempo di scivolare, indisturbato, finchè scorrano, un’altra volta, 10 minuti alle 6.
La giornata scivola così, ordinaria, come le lancette di un orologio da polso che corrono leste, lasciandoci in bocca un retrogusto amaro di un’ellisse di tempo importante. Dove la vita s’interrompe attraverso flebili fermate di un bus, e frammenti di esistenze che s’intravedono dallo specchietto retrovisore, che filtra la realtà attraverso un occhio ovattato, una retina distaccata ma profondamente curiosa, affamata di vita. Ogni tanto alza lo sguardo, Paterson, mai indispettito; non accade mai che lasci distrattamente trapelare un qualche minimo accenno di emozione dal volto apparentemente rilassato. C’è un immenso mondo interno, racchiuso in un solo uomo, che scopriamo unicamente attraverso le sue poesie.
Ad un tratto il mondo di Paterson sembra quasi incrinarsi, ma non si spezza. La monotonia scorre lungo un filo d’impercettibile leggerezza, dove Paterson è il poeta minimalista, l’eremita che fugge, ma non fugge, che esaspera l’empatia, accarezzando la paralitica apatia, senza mai sfiorarla veramente.
Cos’è dunque la poesia?
“Ecco il più bel fiammifero del mondo
il suo stelo di 3 cm emmezzo di legno di pino
sormontato da una testa granulosa viola scuro
così sobrio e furioso, e caparbiemente pronto
a esplodere in fiamme”
La poesia è come la pioggia, monotona e incessante, che scende dal cielo come infiniti fili, e si deposita sul suolo, come i lunghi capelli, sulle spalle di una ragazza.
“Emily Dickinson è la mia preferita”.
Ecco un attimo in cui l’esistenza di Paterson s’infuoca; uno scambio di passioni fugace, proibito, in un luogo freddo, come l’autorimessa dei pullman. Un luogo dove una bambina non dovrebbe mai sostare da sola. Uno spiraglio di luce in una vita ovattata e mai completamente nitida, vissuta dietro a spesse vetrate del bus di linea, neanche troppo pulite.
Una macchina arresta di corsa, una sorella gemella, un altro ricorrente pattern della pellicola del regista Jim Jarmusch; porta i suoi stessi capelli che, come fili d’acqua le scendono sulle spalle, ma ha gli occhi più spenti. La scena muore, così com’è nata, semplicemente e con leggerezza, come a dire che
“non si scambiano caramelle, (e neanche poesie), con gli sconosciuti.
Al termine di ogni giornata lo vediamo tornare a casa, compiendo le medesime azioni, come raddrizzare la cassetta della posta che poi, puntualmente, Marvin, il suo bulldog, ripiega di lato, esprimendo tutto il suo ironico e per certi versi sentimentale, affezione al padrone.
Ed ecco Laura, la sua musa, come in maniera sublime recitava Petrarca; sua moglie, la sua migliore amica, la sua amante, il suo affetto sbarazzino, quell’anima sognatrice, eccessivamente eccentrica ed innaturalmente entusiasta della vita. Una donna caliente, che profuma di america latina, ma potrei sbagliarmi. Colora la sua esistenza, invadendo, senza chiedere il permesso, quella introspettiva e apparentemente pulita del suo uomo. Tinge la casa, le tende, le sue gonne, i suoi abiti, le tovaglie, le tazze, i muri freddi di un’esistenza vissuta in comunione, che prende vita da una semplice parete. Riempie il vuoto di una giornata color pastello di pattern sempre uguali ma diversi, bianco e neri, alternati e ripetitivi, simmetrici, come i pancake immangiabili, e quelle idee folli che Paterson asseconda, con pochi gesti, parole scarne, e molto amore non detto.
Paterson colma il suo vortice interno scrivendo poesie a mano, sul suo taccuino, dal quale non si separa mai. Laura prepara la cena, il “papà di Marvin” porta fuori il cane, per la passeggiata serale, consuma una birra, scivola accanto ad altre esistenze di plastica, sfuma, dissolvendosi nel buio, dal bicchiere mezzo vuoto di birra. Un odore famigliare che gli si impregna addosso.
Jim Jarmusch ci lascia così, avvolti nell’amore per i nostri testi, le poesie, le trame. Un volto stupito dal nulla, posseduto dalla sua arte, anche se non lo sa.
La poesia è amore per le piccole cose.
Per quel cane, dispettoso, amico e nemico, che turba, consciamente o non, un’esistenza di cristallo, rischiando di mandarla in frantumi. Ma è davvero il nemico? O forse rappresenta semplicemente un piccolo tassello, fondamentale per la bellezza e il rinnovo della poesia.
Solo ciò che si distrugge può essere ricreato, attraverso un nuovo taccuino, un incontro fatale, che non nasconde un retroscena mistico, la possibilità di nuove strade da percorrere, rispolverando il buon caro William Carlos Williams, il poeta che ama, semplicemente, a cui ha dedicato una mensola colorata in soggiorno.
La possibilità di costruire e tornare a creare una nuova pagina bianca, che possa scorrere, di soppiatto, e portare ad un nuovo lunedì.
Elisa Bellino