Chi era Uber Pulga? Una spia, un disertore, un pluridecorato di Salò, un eroe della Resistenza, un vincitore, un vinto, un rosso, un nero..
L’elenco potrebbe andare avanti a lungo ma non si troverebbe una risposta unica e definitiva per raccontare un personaggio straordinario, che ha attraversato la storia italiana della Seconda Guerra mondiale, il dramma del biennio terribile, il 1943-45, e rappresenta il travaglio di una intera generazione. Si è dibattuto a lungo di “guerra civile” negli ultimi anni, che vedeva contrapposti repubblichini e partigiani, neri e rossi, diverse tesi storiografiche si sono confrontate e scontrate su quella definizione. Col mio libro ‘Partigiano in camicia nera’ (Chiarelettere) non mi permetto di entrare in quella discussione ma solo di dire che di sicuro la ”guerra civile”, tutta interiore, c’è stata dentro un uomo, per l’appunto, Uber Pulga.
Prima di tutto il protagonista di questa vicenda era un mio parente, cugino di quarto grado, nato a Felonica, in provincia di Mantova, nel 1919, e cresciuto in una famiglia contadina della Bassa, allevato negli anni del regime fascista, con libro, moschetto e vanga subito dopo gli studi durati poco, fino alla quarta elementare. Era uno dei Pulga, la famiglia di mia madre e mio nonno Franco, che oggi come allora vivono fra le province di Mantova e Ferrara.
Uber viene arruolato nel 1940 nel Regio esercito e nell’aprile 1942 conosce uno dei teatri d’operazione più difficili per gli italiani: la Balcania come la chiamava il regime fascista, ovvero l’ex Jugoslavia. Non è un conflitto come gli altri, quello è il Vietnam degli italiani, con episodi degni di un film come Apocalypse Now. I fanti della divisione Murge, nella quale Uber era caporale, sono dislocati a Mostar, e partecipano alla guerra anti-partigiana: guerra senza esclusioni di colpi, di italiani che fucilano
e bruciano le case, di rastrellamenti ed esecuzioni sommarie. Lo richiamano in Italia ed entra in un corpo d’elite, i parà della divisione Nembo. Con loro si trova in Sardegna l’8 settembre del ’43 e il caporale Pulga è ancora una volta al centro della storia. Il suo battaglione, il XII guidato dal maggiore Mario Rizzatti, si ammutina perchè vuole restare al fianco dei tedeschi andando contro la volontà degli alti comandi e del maresciallo Badoglio. Gli ammutinati giurano col sangue, si potrebbe dire, del tenente
colonnello Alberto Bechi Luserna, che cerca di farli desistere, ma loro lo ammazzano. Diventano così ”pirati”, senza legge e senza patria, inseguono qualcosa che non esiste ancora, sono i primi militari della futura Repubblica di Salò. Ma Uber non si ferma lì, portato in Germania, viene inquadrato nella divisione Italia, uno dei reparti appena costituiti nell’esercito di Salò, ma fin da subito addestrato dai servizi segreti delle Ss per infiltrarsi fra i partigiani di Reggio Emilia e annientare la 77esima brigata Sap.
Si finge un disertore dell’Alto Adige fuggito dall’esercito nazista, un ”mezzo tedesco”, esperto di armi, un uomo utilissimo per i partigiani della zona di Reggiolo che lo prendono fra di loro. Ma lo isolano, in una casa di latitanza, per settimane, temendo di aver a che fare con una spia, mentre lui ripara loro fucili, mitra e pistole, guadagnandosi giorno dopo giorno la loro fiducia e preparando la sua vendetta. I sappisti non sospettano nulla e lo fanno partecipare a un assalto contro un presidio
della Brigata Nera – Gnr a Santa Vittoria, frazione del Reggiano vicino a Gualtieri. E’ il 28 dicembre 1944. I partigiani hanno con loro un lanciarazzi tedesco, un Panzerschreck, sicuri di far saltare il portone della caserma. Ma Uber preparando l’arma aveva manomesso i proiettili per evitare che i ”banditi” facessero strage dei suoi camerati. Va tutto a monte, i partigiani si sbandano e trovano rifugio in una casa di campagna, sicuri di essere scampati ai repubblichini che li cercano. Non è così, arrivano i militi e nella fuga rocambolesca di Uber e altri due partigiani, il disertore stramazza al suolo fingendo di essere stato colpito dalle
fucilate fasciste, sembra colpito a morte. Gli altri due non possono fermarsi e scappano. Ma Uber all’arrivo dei militi si rialza, si fa
riconoscere e si riunisce ai suoi camerati. Il suo odio sopito nei mesi si risveglia, contro il nemico di sempre. Insieme prendono un partigiano, nome di battaglia Marco (Arvedo Simonazzi), che si era nascosto all’interno del fienile vicino alla casa, lo torturano, e lo uccidono. Un altro, il capo del distaccamento di Reggiolo chiamato “Noli” (Dante Freddi), che si era fidato di Uber e lo aveva preso fra i suoi, viene massacrato dai fascisti. Uber torna al suo reparto, alla divisione Italia, e per i meriti da spia viene promosso a sottotenente da un Benito Mussolini in persona, che è però l’ombra di se stesso, smagrito e sconfitto. E’ un ufficiale, il sogno di una vita si è avverato, ma proprio lì invece ha inizio la sua crisi di coscienza. Uber da quel giorno di fine gennaio del ’45 non dorme più, i suoi incubi sono popolati dai suoi morti, vede un’Italia distrutta dal regime fascista, si sente un ”becchino che fa la guardia alle macerie di un Paese”. Quel barlume di coscienza che gli è rimasto lo spinge al tradimento e alla diserzione, vera in questo caso, per passare dall’altra parte, quella della Resistenza. Ma tenendo sempre la camicia nera, che gli
ricorda il fardello delle sue colpe. Verrà catturato dai suoi stessi camerati repubblichini, condannato per diserzione e alto tradimento e infine fucilato all’alba del 24 febbraio 1945 dietro il cimitero di Gaiano, in provincia di Parma. Muore gridando ”viva l’Italia”, a due mesi dalla fine della guerra. Si chiude così la storia di Uber Pulga, quella di un Paese che da fascista ha cercato la via della democrazia, passando attraverso la morte di troppi suoi figli, e il mio parente era uno di loro.