Esisteva nel mondo antico una parola minuscola, apparentemente semplicissima, che aveva una straordinaria importanza per la vita morale e civile di singoli e collettività: parresia. Con questo termine, diffusosi nella letteratura greca sul finire del V secolo a.C., s’intendeva una tipologia specifica di discorso. Quello con il quale, parlando francamente a proprio rischio e pericolo, si esprimeva per dovere di coscienza una verità pericolosa.
Davvero un semplice discorso poteva avere una posta in gioco così alta? Oggi che le parole sembrano largamente svincolate da criteri di verità e responsabilità, risulta difficile crederlo. Eppure, c’è stato un tempo in cui la verità era questione, prima che del contenuto del discorso, del modo di essere del parlante. Come? Per comprenderlo occorre capire cosa fosse davvero la parresia e quali fossero i caratteri del parresiaste, cioè l’uomo capace di questo tipo di discorso. A questo scopo risultano fondamentali, a parere di chi scrive, gli studi condotti sul tema tra il 1970 e il 1984 dal filosofo Michel Foucault.
Che cos’è la parresia? Cominciamo con una definizione…
Nel corso di un seminario tenuto a Berkeley nel 1983, Foucault definiva la parresia come
l’attività verbale in cui il parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e nel farlo si espone a un rischio. Se rischia, è perché riconosce che dire la verità è suo dovere per aiutare gli altri (e anche se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della propria libertà. Preferisce il parlar franco alla sottile persuasione, la verità al falso e al silenzio, il rischio alla sicurezza, la critica all’adulazione. Sceglie, insomma, il dovere al posto del tornaconto e dell’apatia morale.
Ciò significa che la parresia è una modalità del discorso dalle condizioni di possibilità estremamente specifiche. Essa è possibile, cioè, solo per chi si trova in un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri. Quale?
Secondo Foucault, chi pronuncia questo tipo di discorso «si rapporta alla verità attraverso la franchezza e alla propria vita attraverso il pericolo. La sua relazione con sé e con gli altri è critica, sempre guidata dal rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere».
Non si tratta, va notato, di una possibilità del comunicare disponibile per tutti, né nella Grecia del V secolo a.C. né successivamente nel mondo antico. Alla parresia, anzitutto, non hanno accesso le donne, gli schiavi e tutti gli esclusi dai diritti politici. A costoro è precluso l’accesso alla voce sulla scena pubblica: non sono capaci di parresia perché il discorso stesso è per loro impossibile. La parresia, tuttavia, è preclusa anche ai tiranni e ai sovrani. Il potere di costoro, infatti, li preserva dal rischio comportato dal discorso parresiastico: nessun uditorio oserebbe insultarli o minacciarli fisicamente per quanto dicono. Parresiaste, dunque, è l’uomo libero che, da una posizione di svantaggio – rivolgendosi a chi regna o a un’assemblea ostile – pronuncia un discorso necessario e impopolare. È chi, pur potendo tacere, sceglie di correre un rischio per non convivere con l’onta del silenzio o dell’ipocrisia.
In che modo, però, si può essere certi che ciò che dice il parresiaste sia effettivamente vero?
Questa preoccupazione, chiarisce Foucault, è tipicamente moderna. In particolare da Cartesio in poi, siamo indotti a fondare sull’adeguatezza percettiva e cognitiva la capacità di un individuo di dire il vero. Nel mondo antico la prospettiva era decisamente diversa: come precisa il filosofo,
il fatto di avere la verità è garantito dal possesso di certe qualità morali. Quando qualcuno le possiede, quella è la prova che ha accesso alla verità.
In altri termini, per i Greci la verità comunicabile attraverso la parresia non è qualcosa che si acquisisce. È, piuttosto, qualcosa di cui ci si rende capaci attraverso la cura di sé, l’indagine, il confronto. Come non si stancava di ripetere quello che fu probabilmente il più famoso parresiaste di tutti i tempi, il filosofo Socrate.
Dire il vero, dunque, nel mondo antico era un atto e una capacità che si collocava all’incrocio di molteplici dimensioni.
La parresia era un diritto concesso, secondo le diverse costituzioni, ad alcuni cittadini/sudditi e precluso ad altri. Per chi ne godeva, esercitarlo era un dovere morale: vivere quieti e falsi, oppressi dal peso del silenzio o dell’assenso, era vergognoso. Occorreva, però, una buona dose di coraggio per affrontare l’assemblea, il sovrano o anche solo un amico, in privato, presentandosi con un discorso critico. Eppure, proprio questa era la funzione della parresia: esercitare una critica per spingere l’ascoltatore (o, talvolta, se stessi) a diventare migliori. Per questo il parresiaste rifiutava l’ipnosi e la dissimulazione degli artifici retorici, preferendo espressioni chiare e dirette. Doveva risultare evidente che egli s’impegnasse appieno in quanto sosteneva, pronto ad affrontarne le conseguenze, facendo coincidere nella propria figura vita e discorso.
Sebbene il quadro offerto dagli studi di Foucault risulti estremamente suggestivo, chiaramente non possibile un recupero dell’etica della Grecia classica. Né, del resto, il filosofo lo auspica. Tuttavia, un confronto tra la parresia e le pratiche discorsive odierne, che ci gettano alla cieca in un mare di parole insignificanti, può rivelarsi proficuo.
Riflettere sulla responsabilità, il potere e le conseguenze dei discorsi che pronunciamo nello spazio pubblico potrebbe restituire a ciò che diciamo un significato più profondo. Allora, prese sul serio, le nostre parole potrebbero davvero essere capaci di cambiare il mondo.
Valeria Meazza