Genius, un film travolto da un mare di parole

Un sasso, una foglia, parole nascoste.

Qualcuno dall’animo folle e profondamente disturbato, gridava a gran voce che l’amore non fa rumore.

Piazza Mazzini pullulava di animi distinti e distratti, l’autorità di un cappello, un paio di scarpe costose, fiato che fuoriusciva da bocche colme di parole di carta; una frase, sospesa sopra le loro teste, che parlava per loro.

L’amore non fa rumore. Non esiste follia più grande.

parole

L’amore è chiassoso, perverso, fluttuante, ossessivo, velenoso ed oscillante, come una boccetta di antidepressivi.

Viscido e prepotente.

Un sasso, una foglia, una porta nascosta.

Genius è un progetto gigantesco, partorito anni e anni fa, frutto di studi ossessivi e continui, lasciato riposare nella placenta del regista per immemore tempo. sarà questo il problema?

Le parole si fanno film, nella nuova pellicola del regista Michael  Grandage, l’unioni di due mondi, parole lasciate al vento, altre impresse su innumerevoli fogli di carta. Volano via, e nulla rimane.

E’ interessante notare cosa esattamente succede, quando riponiamo la narrazione nelle mani di un regista teatrale. Esistono infinite e tortuose vie per raccontare una storia; il regista ha scelto la sua più affine, e il risultato è una parola, due, tre, infinite parole che non lasciano spazio al silenzio e al vuoto; inondano la narrazione, soffocandola. Un fiume in piena che non può essere arginato, non conosciamo il limite, non si sa mai quando dire basta. Ecco, forse occorreva dire basta.

Siamo a cavallo tra il 1920 e il 1930, sullo sfondo di una New York dai toni color seppia.

Nella pellicola cinematografica vediamo impressi fotogrammi di disperazione letteraria, ascesa e discesa di menti folli e paranoiche, progressivi eccessi di superiorità e depressione, deliranti testi, pieni di parole, impresse su un foglio di carta. Assistiamo all’ascesa artistica di Thomas Wolfe, Ernest Hemingway e Scott Fitzgerald.

Ma chi è il vero genio?

Questa è una domanda importante, ma fondamentale per risucchiare appieno tutto il liquido indigesto che ci offre il regista. Thomas Wolfe inonda una città che gli stringe la gola, soffocandola di eterne parole carica di una forza evocativa senza precedenti. Invidia, genialità, stupore?

Non è il genius ad essere il vero genio. Thomas Wolf è egocentrico, prolisso, invasato, ossessivo, ma no.

Non sono i suoi bicchieri, straboccanti di parole alcoliche, non è la forma stracciata dei suoi romanzi, le sue regole infrante, la sua follia incontrollata, la sua modellata autodistruzione. Tutto è impresso nella carta, così come nella sua esistenza; ma la sola cosa ad essere veramente importante è l’amore.

 

E’ chiassoso, perverso, fluttuante, ossessivo, velenoso ed oscillante, Viscido e prepotente.

Ma è l’amore, ancora una volta, a vincere.

Un sasso, una foglia, una porta nascosta.

Le parole si rincorrono, i fogli volano, confronti e scontri in una New York cristallizzata, dai toni cupi e lividi, che si fa protagonista di una stagione letteraria senza precedenti. Una città soffocata dalle troppe parole, dove anche il cuore si può mettere da parte.

E se la narrazione è immobilizzata dalle troppe parole, sono i costumi a parlare al suo posto; le scarpe dei due “amanti”, Thomas Wolf e Max Perkins vivono di più dei personaggi stessi, sentono la pressione del tempo, e la pesantezza degli animi; e quel cappello, parte integrante dell’autorevolezza dell’editore, abbandona il capo solo al momento giusto.

E’ chiassoso, perverso, fluttuante, ossessivo, velenoso ed oscillante, Viscido e prepotente.

Ma è l’amore, ancora una volta, a vincere.

 

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