Parma, settembre 2010.
Claudia ha appena 18 anni, la bellezza della gioventù, la forza delle sue idee, gli amici e la frequentazione del centro Raf, Rete Antifascista di Parma.
Il Raf è, per i ragazzi parmigiani dai 20 ai 30 anni, un luogo di incontro e di confronto politico e culturale.
Claudia è un nome convenzionale.
Potrebbe avere il nome di una vostra amica o sorella o figlia.
Provate.
Perché in un giorno di settembre, in stato non cosciente, “come morta“, viene stuprata da alcuni compagni nella sede del Raf.
Lo stupro viene filmato da altri con un cellulare, e diventa virale.
Alla violenza fisica si aggiunge quella psicologica dell’umiliazione e della derisione.
Da cellulare a cellulare, il video oltrepassa le mura del Raf e diventa oggetto di curiosità e di ilarità.
Nessuna indignazione. Nessuna denuncia. Nessuna solidarietà o vicinanza affettiva delle compagne nei confronti della vittima.
La ragazza non denuncia, non parla con nessuno.
Viene isolata: intorno a lei un muro che ha il peso del dito puntato sulla colpa.
Ma al di là del muro, continuano gli incontri di vita e di quotidianità nei luoghi pubblici o nel centro sociale degli stupratori, di tutti coloro che quel giorno c’erano ed hanno scelto, come allora, di essere spettatori passivi. Senza guardare.
Fino al 2013.
Nell’agosto del 2013, una bomba carta esplode nelle vicinanze della sede parmigiana di Casa Pound.
Si indaga nei centri antifascisti e anarchici della città e si sequestrano cellulari e materiali utili alle indagini. Visionando video e foto, gli inquirenti vengono in possesso del filmato del 2010 e identificano la vittima.
La ragazza viene convocata in caserma e interrogata dai carabinieri. Da quell’interrogatorio saltano fuori i nomi di quattro ragazzi (di cui uno all’estero ed irreperibile) che quella sera compirono la violenza: Francesco Cavalca (25 anni), Francesco Concari (29 anni), Valerio Pucci (24 anni), finiti ai domiciliari nel 2015.
Il 19 dicembre 2016, si è tenuta a Parma, a porte chiuse, l’udienza che vede imputati i tre militanti del Raf
Sono stati ascoltati i testimoni della difesa degli stupratori.
Oggi la sede del Raf non c’è più.
Ma il “muro” è ancora lì. Un muro lungo 6 anni. Mattoni di cecità, pregiudizio, omertà. A questi, si è aggiunto, dopo le indagini e la denuncia del 2013, quello di “infame“, col quale compagni e compagne del movimento hanno cercato di proteggere e salvare lo stesso, chiudendo ancor di più, in una solitudine di vergogna, la vittima.
Perché chi si affida allo Stato non viene perdonato.
Tutto passa: lo stupro, la violenza di un filmato. Ogni forma di meschinità.
La “soffiata” agli sbirri, che infanga un movimento e i propri compagni, no.
Solo una crepa è stata fatta al muro, come evidenziano in un comunicato le Romantik Punx pubblicato nel blog abbattoimuri.wordpress.com
Quanti mattoni occorre crepare per rendere più cedibili i muri, dentro e fuori di noi?
Fatima Mutarelli