L’Italia ha dovuto aspettare tre anni per trovare in sala Mademoiselle, l’ultimo film del sud-coreano Park Chan-wook già regista di Oldboy (2003) e Lady Vendetta (2005), beniamino dei cinefili.
In Mademoiselle l’Occidente non è semplicemente vicino ma fa da struttura portante ad un’opera che è interamente costruita sul compiacimento, estetico quanto narrativo. Prende spunto dal romanzo Ladra (2002) di Sarah Waters ma ne dilata la contrapposizione uomo-donna e ne cambia l’ambientazione portando la storia in Oriente.
Siamo in Corea, anni ‘30, sotto il dominio giapponese: le protagoniste sono l’ereditiera Hideko (Kim Min-hee) e la ladra locale Sook-hee (Kim Tae-ri) posta a suo servizio, secondo il piano di un falsario che si spaccia per nobile, con il nome di Conte Fujiwara (Ha Jung-woo).
Il piano del “Conte” e di Sook-hee è di portare Hideko tra le braccia di lui, per poi farla rinchiudere in manicomio. Apparentemente, la ragazza, giapponese e nipote di un perverso bibliomane coreano arricchito, non ha esperienza alcuna, è assai manipolabile e segnata dall’isolamento quanto dal suicidio della zia anni or sono.
Lo zio di Hideko, amante di libri erotici antichi, ha chiamato il “Conte” per realizzarne delle copie e vendere i falsi a compratori interessatissimi. Per il piacere loro e dello zio, Hideko si sottopone a snervanti allenamenti e sessioni di lettura che ne logorano la salute mentale. O almeno così sembra agli occhi di Sook-hee…
Più che al romanzo femminista della Waters, Mademoiselle rimanda al film precedente di Park Chan-Wook, lo Stoker (2013) ambientato in America che raccontava sempre di una storia di liberazione, in una cornice di massima cura estetica, ma più trascinante.
All’estetismo sensuale di quel film, poco amato dalla critica, il regista contrappone lo stile più classico di Mademoiselle, che vira verso l’accademismo per poi scivolare verso la patina di un film di Netflix.
Questo melodramma sovraccarico perde gradualmente fascino perché ha la cattiva idea di suddividersi in tre parti come il romanzo di origine, troppo dense; si affida a luci piatte che non potenziano né fanno risaltare i corpi o gli ambienti; il suo regista non frena il proprio gusto letterario o dialogico, il che lo porta a tralasciare il potenziale visivo.
L’erotismo di Mademoiselle, che ha richiamato a molti critici (e non) gli amplessi de La vita di Adéle (2013), non ha nulla da spartire con l’approccio di quel film, famoso per le scene di sesso assai lunghe tra le due protagoniste.
Va detto, però, che se in quel caso s’indagavano i corpi con un occhio da entomologo e si puntava morbosamente, passionalmente, a cogliere ogni briciola di tensione e attrazione, Park Chan-wook fa dimenare le sue protagoniste in slanci inutili all’economia del racconto.
Si sfocia nel softcore per puro gusto, senza che il film sia arricchito dalla messa in scena esplicita della passione. Film elegante quanto insistente, avrebbe dovuto imparare la lezione di un maestro dell’erotismo orientale: Junichiro Tanizaki, di cui si consiglia ai lettori il romanzo La chiave (1956), di singolare ricchezza nello scandaglio della perversione.
I protagonisti di Mademoiselle, al massimo, si aggirano dalle parti di E. L. James, che s’è fatta un nome, come tanti altri romanzieri attuali, grazie al lato più facile e patinato del sadismo.