In Paraguay la polizia ha sgomberato con la forza almeno cinque comunità contadine indigene, forzando decine di persone ad abbandonare la propria terra per fare spazio a all’agricoltura intensiva e all’allevamento di bestiame
Quelli di questo novembre non sono i primi sfratti avvenuti a danno della popolazione locale e a favore del settore dell’agrobusiness. Fra maggio e giugno la polizia aveva obbligato altre sette comunità indigene ad abbandonare le proprie case e i propri terreni. L’intero 2021 è stato caratterizzato da un’ondata di sgomberi che ha generato grande preoccupazione fra la popolazione locale. Varie organizzazioni rurali si sono unite per difendere il proprio territorio e chiedono un intervento urgente dello stato per regolarizzare il possesso della terra delle comunità indigene in Paraguay e mettere così fine ai violenti sgomberi perpetrati dalla polizia.
Pochi giorni fa a Glasgow, in occasione della Cop26, i leader occidentali hanno concordato di devolvere quasi due miliardi di dollari a sostegno delle popolazioni indigene, riconoscendone il ruolo fondamentale nella protezione delle foreste. Gli ecosistemi forestali sono essenziali per la lotta ai cambiamenti climatici grazie alla loro capacità di assorbire CO2. Sempre in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, 100 paesi, Paraguay incluso, hanno anche promesso di mettere fine alla deforestazione entro il 2030.
Di fronte a questi impegni stride la decisione del governo paraguayano di procedere con gli sgomberi delle comunità indigene e di convertire ettari di foreste in terreni da destinarsi all’allevamento di bovini e all’agricoltura.
Asuncion dimostra che i buoni propositi circa il sostegno a un’agricoltura più sostenibile e lo stop alla deforestazione si traducono in un nulla di fatto là dove sono in gioco interessi economicamente più profittevoli, come quelli dell’agrobusiness.
Che le promesse fatte dal Paraguay a Glasgow potessero essere disattese ce lo si poteva aspettare. A settembre Mario Abdo Benitez – presidente del Paraguay, oltre che imprenditore e rinomato per essere dalla parte degli interessi dei grandi proprietari terrieri – ha approvato una legge che raddoppia la pena detentiva – fino a dieci anni – per coloro giudicati colpevoli di occupazione illegale di terreni privati. Inoltre, il Paraguay ha deciso di prendere parte all’accordo contro la deforestazione solo dopo le pressioni da parte della Comunità Internazionale. Per i primi giorni della conferenza si vociferava che il paese non avrebbe sottoscritto alcun impegno per proteggere le foreste.
La crescita economica del Paraguay è trainata proprio dal settore agricolo e dell’allevamento, che rappresentano un quinto del prodotto interno lordo del paese. Anche la maggior parte delle industrie sono in qualche modo collegate ai due settori, essendo impegnate in attività di lavorazione e trasporto di prodotti agricoli, pastorali o forestali. Non a caso quindi fra le 29 persone che hanno composto la delegazione del Paraguay in occasione della Cop26 non vi era alcun rappresentante delle comunità indigene, mentre 3 delegati provenivano dalla lobby dell’agrobusiness.
In un paese che basa la propria ricchezza sull’agricoltura e l’allevamento non stupisce che lo stato favorisca i grandi proprietari terrieri, e sia complice di una situazione che vede l’85% dei terreni arabili in mano a solamente il 2.5% della popolazione. A farne le spese sono sempre state le comunità indigene e di contadini locali che negli anni hanno subito vasti espropri delle proprie terre. Per gli indigeni la terra non è solo sono una fonte di sostentamento, ma rappresenta un legame ancestrale con la propria storia e ricopre un’importanza spirituale, oltre che ambientale.
La relazione fra i cambiamenti climatici e gli sfratti delle popolazioni locali per fare spazio all’agricoltura e all’allevamento intensivi è stretta. In primo luogo, la maggior parte delle emissioni di gas a effetto serra prodotte dal Paraguay provengono dall’agricoltura e dalla selvicoltura. Inoltre, gli alberi giocano un ruolo cruciale quando si tratta di clima e la deforestazione incide negativamente sugli sforzi per contenere l’innalzamento delle temperature globali. Infatti, abbattere foreste significa sia ridurre la quantità di alberi che assorbono CO2, sia aumentare il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera – di quella immagazzinata nel legno delle piante. Quest’ultimo fenomeno avviene nel caso in cui gli alberi vengano bruciati.
È di quest’anno la scoperta, risultato di uno studio condotta da un team di scienziati argentini e tedeschi, che il carbonio immagazzinato nella foresta del Gran Chaco – fra Argentina, Bolivia, Brasile e Paraguay – è 19 volte superiore a quanto si pensasse in precedenza. Nonostante ciò, un’indagine condotta da Eartsight ha rivelato attività illegali di disboscamento delle foreste del Chaco appartenenti alla comunità degli Ayoreo Totobiegosode al fine di liberare spazi per l’allevamento. La stessa inchiesta ha collegato la deforestazione alla produzione di pelli acquistate poi da aziende automobilistiche quali BMW e Jaguar.
La catena del commercio internazionale di pelli provenienti dal Paraguay arriva fino in Italia, il primo paese importatore. Infatti, il 60% delle pelli prodotte a partire dagli allevamenti complici della deforestazione e dello sfratto delle comunità indigene arriva proprio sul mercato italiano.
Nei fatti il Paraguay sembra farsi beffe degli impegni assunti durante la Cop26 per mettere fine alla deforestazione, ridurre le proprie emissioni di CO2 e proteggere la biodiversità. Il Paraguay non è l’unico paese che continua ad approvare politiche che hanno fra gli effetti la distruzione di foreste, il peggioramento della crisi climatica e il calpestamento dei diritti delle comunità indigene. Non troppo dissimili sono i casi del Brasile, dell’Arabia Saudita e del Qatar – per citare solo alcuni dei paesi che occupano gli ultimi posti della classifica dei paesi meno virtuosi quando si tratta di lotta ai cambiamenti climatici (la fonte è l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite).
Di fronte al caso del Paraguay, diviene sempre più urgente che l’Unione Europea – in prima linea nella lotta al riscaldamento globale – si doti di un meccanismo per fermare la deforestazione e i soprusi a danno delle popolazioni indigene che indirettamente finanzia tramite le proprie catene di approvvigionamento di beni e servizi. In questo senso si sta muovendo la Commissione Europea, che sta lavorando a una proposta legislativa atta a fermare l’importazione di prodotti responsabili del degrado degli ecosistemi forestali. Tuttavia, alcune organizzazioni ambientali denunciano gravi lacune nella proposta di regolamento, come ad esempio il fatto che non venga richiesto alle aziende che commerciano materie prime di osservare le leggi internazionali a tutela dei diritti delle comunità indigene indigene e delle popolazioni locali.
Benedetta Oberti