I VIP, le Persone Veramente Importanti, non sono, per gli occhi comuni, umani. Facile, riflettendovi, rendersene conto: quale fascia della popolazione difetta più delle altre del rispetto popolare? Esatto, la loro.
È il prezzo della grandezza; i famosi sono considerati, anziché persone, personaggi. Etichetta dannante più che beneficente. Un personaggio è una figura, un idolo, un soggetto disumanizzato da cui si pretendono abitudini, modi e reazioni idealizzabili in una divinità priva di difetti.
Il celebre, nel voler contentare tutti, deve concedersi. “Deve la sua fortuna al suo pubblico” si dice, quindi, “al suo pubblico”, si continua, “deve anche il resto”. Tutto ciò che esso vuol pretendergli. E la platea, purtroppo, è affamata di tanto. Esige per se dispendi di tempo e d’attenzioni; esige che vengano esaurite le sue curiosità, le sue voglie, pur che siano strane, eccessive e macabre.
Dei fatti divenuti noti di recente , uno dimostra bene la praticità del teorizzato; evidenziando quanto ciniche possano essere le persone nei confronti dei personaggi. Affronteremo oggi le vicende post mortem dell’atleta Kobe Bryant, una stella che ora vede minabile la luce delle sue memorie.
Il caso Kobe Bryant, un VIP disumanizzato anche dopo la morte
In molti spiacevolmente ricorderete il risaputo accadimento del 26 gennaio 2020. Quel giorno, a seguito del precipizio del loro elicottero, persero la vita l’ex stella NBA Kobe Bryant, la figlioletta Gianna e altri sette sfortunati individui. In meno però spiacevolmente saprete cos’è successo immediatamente dopo il malinconico incidente.
Il vice del dipartimento dello sceriffo di Los Angeles Doug Johnson, giunto sul luogo della sciagura, ha mal scelto di documentare l’evento scattando, con il cellulare personale, ventisei foto inquadranti il perimetro disastrato. Di queste, testimonia lui stesso, circa un terzo avevano come contenuto dei resti umani. Resti, si può facilmente immaginare, appartenenti, più che agli “anonimi” deceduti, al rinomato Bryant. Si certifica, in particolare, che uno scatto tra gli eseguiti ritragga nitidamente il distinto corpo dell’ex cestita mancante della testa.
Condivisioni inopportune, gli spropositi alla famiglia Bryant
Secondo quanto affermato da Johnson, le suddette immagini avrebbero fatto il giro di quaranta dispositivi, appartenenti ai collaboratori dello sceriffo e ai pompieri. Oltre questi uomini, però, anche qualcun altro ha avuto modo di visionarle, in un’evenienza testimoniata tetra da delle telecamere. I sistemi di videosorveglianza di un bar, infatti, hanno ripreso il vice sceriffo intento a mostrare il decapitato a un suo affetto lì lavorante. La reazione di quest’ultimo e la replica espressiva del suo amico sconvolgono. I due, osservando il cellulare, sorridono spietatamente.
Il timore della pubblicizzazione
Considerato il complesso, la Bryant ha avuto ragione di sporgere denuncia, palesando per se e per la famiglia estrema preoccupazione. “Vanessa e i suoi figli vivranno per sempre nel terrore che un giorno quegli scatti verranno alla luce e saranno diffusi su internet” ha vociato Luis Li, parte legale della donna, in tribunale.
Volendo render il giusto terrore dei fatti, la Li ha aggiunto fuori aula: “Il 26 gennaio 2020 è stato il giorno peggiore della vita di Vanessa Bryant e la Contea ha peggiorato le cose. È stato come spargere e strofinare sale su una ferita aperta. Quelle foto sono state condivise a più riprese con persone che non avevano alcun motivo di riceverle“.
La speranza è che sia verificata l’eliminazione di tutto il materiale sinistro; che si ponga fine ai dispiaceri di una vedova già affranta, e che il ricordo di Kobe continui a vivere non del suo spettro ma unicamente del suo splendido lascito sportivo.
Gabriele Nostro