Papa Francesco durante il viaggio in Myanmar ha tenuto un discorso ufficiale davanti a cittadini, diplomatici e autorità birmane.
“Il futuro della Birmania deve essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune. L’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. La giustizia è volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto”.
Poco prima del suo discorso il Papa ha incontrato la consigliera del governo e ministro degli Esteri Aung San Suu Kyi.
Il colloquio privato tra il pontefice e la leader birmana è durato ventitré minuti e si è tenuto nel palazzo presidenziale della capitale Nay Pyi Taw di Myanmar, paese che fino al 1989 si chiamava Birmania.
La consigliera del governo (in carica dal 2016) vinse il Premio Nobel per la Pace del 1991 grazie all’impegno politico in difesa dei diritti umani nel suo paese, premio che fu in grado di ritirare ad Oslo solamente nel 2012 poichè venne tenuta agli arresti domiciliari dalla giunta militare del Myanmar fino al 2010.
Divenne un’icona della non-violenza e pace e la sua vita è stata oggetto del film del 2011 “The Lady”, del famoso regista francese Luc Besson.
Aung San Suu Kyi recentemente è stata oggetto però di aspre polemiche a livello internazionale a causa del suo silenzio e della sua prudenza nell’affrontare la questione dei Rohingya.
Diversi attivisti per i diritti umani di tutto il mondo hanno accusato Aung San Suu Kyi di legittimare il genocidio dei Rohingya, la minoranza musulmana della regione Rakhine, contro cui il governo birmano ha scatenato una violenta repressione.
Questo gruppo minoritario islamico conta con circa un milione di persone e, dal 1982, è ufficialmente considerato come un insieme di immigranti illegali dal Bangladesh cui è negata la cittadinanza.
Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha parlato di una pulizia etnica che ha causato la fuga in Bangladesh di almeno 500 mila persone, definendola:
“una catastrofica crisi umanitaria per la minoranza dei musulmani Rohingya”.
Il lungo silenzio di Aung San Suu Kyi su questa grave mancanza di diritti è probabilmente dovuto alla necessità di mantenere delle buone relazioni con la giunta militare, con lo scopo di ottenere una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia.
Grazie all’incontro con Papa Francesco la leader birmana finalmente si sbilancia affermando:
“Tra le tante sfide che il nostro governo ha dovuto affrontare, la situazione nel Rakhine ha catturato più fortemente l’attenzione del mondo.[…] Lo scopo del nostro governo è di far emergere la bellezza della nostra diversità e di renderla la nostra forza, proteggendo i diritti, promuovendo la tolleranza, garantendo la sicurezza per tutti. Il nostro obiettivo più importante è portare avanti il processo di pace basato sull’Accordo di cessate il fuoco a livello nazionale”.
Nonostante il Papa né la premio Nobel citino direttamente i Rohingya, il messaggio di entrambi appare piuttosto esplicito ed è unanime l’impegno verso la pace e il rispetto dei diritti di ogni gruppo etnico.
Fadua Al Fagoush