Paola Masino e il suo “Fame” (1933)

Un racconto che saltava alla giugulare della retorica fascista

Paola Masino e il suo "Fame" (1933) è ben rappresentato in questo dipinto

"A family of beggars", R. W. Ekman, 1860, olio su tela, Finnish National Gallery

Nel 1933 usciva sulla rivista Espero il racconto Fame di Paola Masino. Crudo e sconcertante, esso ritraeva una realtà italiana lontanissima dalle retoriche del regime fascista. E faceva tremare Mussolini.

Paola Masino aveva iniziato a dare problemi al regime fascista già appena diciottenne, nel 1927. Il motivo? Un amore scandaloso per lo scrittore Massimo Bontempelli, di trent’anni più vecchio e per giunta sposato. Sei anni dopo, ricorda Giacomo Papi in una recente antologia, i suoi scritti erano attenzionati dal regime. Del suo romanzo d’esordio Periferia, finalista al Premio Viareggio, e dei suoi racconti scrivevano che erano testi «bolscevichi, aridi e suggeriti». Il loro torto, invece, era di dire la verità, che suonava tra quelle pagine come uno schiaffo in pieno viso alle bugie del regime.




Nel 1933 Masino scrisse un racconto, Fame, destinato a suscitare scalpore. Paradossalmente, all’uscita sulla rivista Espero passò del tutto inosservato. Venne notato, invece, quando nel 1938 il quindicinale Grandi Firme volle ripubblicarlo. Fu notato tanto da valere al periodico la chiusura e a Paola Masino l’ostilità del regime, che nel 1940 bloccò l’uscita del suo capolavoro, Nascita e morte della massaia. Ma di che parlava mai questo racconto per sconvolgere tanto Mussolini e tutto il suo entourage?

Fame: il contenuto del racconto di Paola Masino

Fame parla, per l’appunto, di fame. Non, però, la fame sublimata, resa lirica e patetica, nobilitata dalla sopportazione di una sventura o di un’ingiustizia. Il racconto di Paola Masino parla della fame nera, bieca, quella che rode lo stomaco dall’interno. E che intanto rosicchia i pensieri, la lucidità, e con essa la dignità di esseri umani. E se quest’esperienza, anche se molto lontana da noi, a una gran parte della società italiana allora doveva essere ancora relativamente familiare, c’è di più. A rendere il racconto veramente atroce da leggere è il fatto che ne siano protagonisti un padre e tre bambini. C’è un intero mondo familiare che si sgretola in questa storia, un legame sacro e inviolabile che viene polverizzato. Non si vedeva una cosa del genere dal Conte Ugolino di Dante. Ed è doloroso e raccapricciante esattamente allo stesso modo.

Fame racconta qualcosa che le retoriche di regime si sforzavano in tutti i modi di nascondere: che l’Italia languiva in una strutturale miseria. Dal 1921 al 1948, infatti, la povertà aumentò costantemente, poiché l’economia restava ferma e i salari venivano tagliati. E di questa povertà il regime voleva assicurarsi di essere l’unico a poter parlare, per fare dei poveri uno strumento di propaganda fascista.
Paola Masino, invece, racconta coraggiosamente quelle conseguenze della propria azione che lo Stato non osava né voleva guardare in faccia.

Una famiglia logorata dalla miseria

«La mamma è morta.»
«Perché è morta?»
«Di fame.»

La narrazione comincia così: con la conversazione più atroce che un padre possa immaginare di avere coi propri figli. Quel che segue, però, è ancora più terribile. Chiara, la figlia minore, con tutta l’innocenza dei suoi sette anni si siede alla tavola vuota e dice: «Anche io ho fame ma non riesco a morire». Forse è questo l’aspetto più tremendo dei due bambini immaginati da Paola Masino: sono giudiziosi, calmi, rassegnati, pieni di buon senso e di dignità. Il loro padre, Bernardo, cerca di scuoterli, di farli piangere, ma loro si limitano ad assentire a ciò che lui ha detto. Sì, è vero, ora la madre non soffre più. Solo Mario, quando il papà gli chiede di leggere il suo tema per assicurarsi che abbia fatto i compiti, si lascia andare a un malinconico:

Chiara, ma lo sai che forse moriremo anche noi di fame? […] A me, sai Chiara, mi dispiace di non veder il leone prima di morire, il maestro ne ha tanto parlato, mi ha fatto venire voglia.

La sorellina gli suggerisce di provare a domandarlo a Dio, che ama mostrare le bellezze del creato, ma il bambino risponde:

Ora che mamma è morta ti voglio dire una cosa, Chiara. A me Dio mi è antipatico, non voglio chiedergli nulla. È un egoista, ecco, ora l’ho detto. […] E non ha metodo, perché uno che vuol fare una cosa e la fa con metodo non si lascia prendere la mano. Lui voleva fare un mondo buono e gli è venuto fuori tutto un mondo cattivo.

Chiara risponde che Dio avrà fatto come poteva, come il loro padre, che avrebbe voluto fare due bimbi felici mentre lei e Mario sono infelici. Non è colpa di nessuno, ormai non c’è rimedio. Al che Bernardo di guarda mestamente e osserva:

«Tutto quello che si è fatto si può disfare. Anche Dio potrebbe rimediare al male che ha fatto agli uomini, ma lui sta bene e se ne infischia.»

E Chiara non risponde altro che questo: «Allora babbo, se puoi, sfacci pure. Ho tanta fame».

L’epilogo

Mentirei se dicessi che il racconto di Paola Masino è facile da leggere. Non lo è: è straziante, quasi con compiacimento. L’autrice, infatti, narra con dovizia di particolari come Bernardo strangoli prima sua figlia quando, usciti di casa, lei gli ripete che ha fame. L’uomo lo fa con dolcezza, obbedendo alla richiesta della bambina, e personalmente mi sono sentita a mio agio come se stessi guardando uno snuff movie. Dopodiché, Paola Masino racconta ancora come il padre speri che il figlio non dica che ha fame. Invano. Narra la sua resistenza, la sua rabbia e la sua scelta di acconsentire alla richiesta del piccolo che, semplicemente, non riesce più a vivere.

Alla fine del racconto, Bernardo deve decidere se restare in vita o uccidersi. Ragiona così, paradossalmente tenendo sempre presente l’amore per i suoi figli:

Ora a lui non resta che uccidersi, come agli uomini che hanno perduto tutto. Ma lui il suo tutto l’ha dato ai suoi bambini, uccidersi è come rimproverarglielo, pentirsene. Sarebbe crudele e immorale. Invece, andrà a costituirsi perché la società lo vuole, ed è una cosa abbastanza morale.

Quando arriva al commissariato, dice al commissario di avere qualcosa di importante da dirgli, un delitto da confessare. Ma lo farà solo in cambio di un piatto di minestra.
Questa gli viene portata, ma Bernardo non riesce a deglutirne nemmeno una sorsata. La sua disperazione, quando butta tutto in terra piangendo, è quella di un uomo che non può più essere un uomo:

«Fatemi mangiare, fatemi mangiare. Ora come faccio se non so più mangiare!».

Valeria Meazza

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