Cosa sarebbero i paesi, le città, le loro ville, i loro parchi, i loro centri senza le panchine? Non esisterebbe modo e pretesto per fermarsi un po’, tra un passo e l’altro, tra la partenza e l’arrivo, per prender fiato, per rimettere in ordine le idee, per continuare a leggere il libro che si porta in borsa, per guardare il cielo, per ricordare, per celebrare un momento, un pensiero particolare.
Le panchine sono importanti: quando ci si siede su una di esse e ci si guarda intorno, si avverte come la sensazione di essere parte insieme a tutti gli altri e a tutte le altre di una coreografia, di una scenografia, come se ogni panchina fosse una di quelle stelline che sui palcoscenici vengono utilizzate per indicare il punto in cui ognuno dei partecipanti ed ognuna delle partecipanti deve fermarsi. Per poi ripartire, per poi riprendere con l’esibizione.
Sono pazienti, le panchine: accolgono gli autunni con le loro piogge e le estati con il loro calore; sono romantiche e discrete perché custodiscono incontri tra più persone e rincontri con se stessi e con se stesse; sono lì, sempre, e si può scegliere quella che più si gradisce in base al momento.
E sono commemorative, sono segni, sono tracce di un passato che, nel bene o nel male, si deve ricordare: nel bene, per non dimenticare come sia possibile realizzarlo e nel male perché non riaccada ancora.
Per questo nel parco comunale Nicola Calipari, a Pescara, è stata aggiunta una panchina che ha dello speciale: una panchina rossa, segno della protesta contro la violenza sulle donne.
L’iniziativa ha coinvolto il vice sindaco Blasioli, l’assessore regionale Sclocco e la madre di Jennifer Sterlecchini, la giovane donna accoltellata dall’uomo che diceva di amarla e in memoria della quale è stata pensata la nuova panchina.
Una panchina che ricordi la Persona in quanto Corpo, Progetto, Desiderio, Aspirazione, Spirito e Vita: perché i femminicidi non si calcolano matematicamente ma hanno un Nome, una Storia, una Sofferenza, Un’Assenza; perché i femminicidi non sono una trovata mediatica, ma consistono in una tragica conseguenza di una cultura machista e patriarcale; perché i femminicidi si possono evitare, educando al rispetto, alla sensibilità e alla parità: trasmettendo il profondo senso di uguaglianza e di incontro con un’alterità che non appartiene a nessuno, se non a se stessa.
Una panchina rossa, come di rosso si veste anche la liturgia religiosa nel ricordare chi è morto per mani d’altri, perché martiri sono anche le Donne che muoiono a causa della perversione e della volontà di possesso; rossa come il sole quando tramonta con la promessa che il suo calare non sia vano; rossa come il sangue che è vita, che è esserci, che è passione, che è sempre rosso, indipendentemente dalla persona, eppure è sempre diverso; rossa come gli occhi di chi piange, come i segni sul Corpo e nella Storia delle Donne che vengono ammutolite, oppresse, umiliate, uccise.
Una panchina rossa: silenziosa, discreta, eccezionale e forte nel presentarsi, come lo sono le Donne che non si sarebbero arrese se qualcuno non glielo avesse imposto con la violenza.
Una panchina per Jennifer. E per ogni Donna che chissà dove e chissà come, continua a scegliere la panchina su cui sedere, e su cui fermarsi.
Deborah Biasco