Negli ultimi mesi la teoria nota come Pallywood ha ripreso a circolare per social media e agenzie di stampa, secondo cui le atrocità in corso sul territorio Israeliano-Palestinese sarebbero, in parte o nella loro integrità, nient’altro che un’azione cinematografica sponsorizzata da Hamas per rappresentare una realtà più brutale di quanto non sia in realtà. Ma come si è arrivati a questo punto? E quale ruolo hanno le nuove tecnologie nel confondere le acque di un’informazione sempre più pervasiva e sempre meno affidabile?
Il fenomeno Pallywood e storie di postverità mediatica – Dal calco di Hollywood e Palestine nasce Pallywood. O forse è meglio dire che nacque Pallywood.
L’idea infatti che Hamas, con l’aiuto dei media occidentali, si avvalga di troupe cinematografiche per falsificare la realtà del conflitto circola da ormai quasi vent’anni, e ha trovato nuovo vigore nel corso degli ultimi mesi, dove diversi enti di propaganda, fra cui alcuni rappresentanti del governo israeliano, ne hanno ripreso i punti fondamentali.
Intriso di complottismo e di processi di disumanizzazione, Pallywood si presenta come il perfetto esempio di post-verità nel mondo delle informazioni, in una sempre più inquietante discesa nel relativismo della ricerca alla notizia che favorisce il proprio punto di vista.
Le origini di Pallywood
Il termine viene coniato nel 2005, dall’omonimo documentario “Pallywood, secondo le fonti palestinesi” (reperibile su YouTube) del professor Richard Landes dell’Università di Boston. Nel documentario, il professore argomenta che gli eventi relativi alla sparatoria del 2002 lungo il crocevia di Netzarim, all’inizio della seconda Intifada, non siano stati che manipolazioni mediatiche di giornalisti palestinesi indipendenti, arruolati dalle grandi emittenti occidentali.
Le prove fornite all’interno del documentario variano dalla visione aerea di un supposto corteo funerale il cui cadavere in realtà sarebbe un attore, a (discutibili) affermazioni circa il troppo tempestivo arrivo delle ambulanze e il movimento troppo regolare di alcuni civili feriti, presentati da Landes come nient’altro che attori.
Per il creatore del documentario, Pallywood sarebbe un “segreto pubblico, a cui l’intero popolo partecipa felicemente”, volto a demonizzare le forze di occupazione. In una successiva intervista del 2008 per il Jerusalem Post, Landes confermerà la sua visione degli eventi, creando, fra le altre cose, una serie interessante di paralleli su ciò che sta accadendo attualmente. Cita, ad esempio, senza negarlo, una significativa sproporzione nel numero di causalities dai due lati del conflitto, affermando però che lo stato di Israele, definito dal professore come “una forza modernizzatrice”, non sia tenuto a mantenere una proporzione nella risposta al conflitto.
La teoria di Pallywood oggi, fra Crisis Actors e Fake News
Con l’avvento dei social media e la deframmentazione delle informazioni, la diffusione di teorie complottistiche ha vissuto un vero e proprio boom e, con essa, il ritorno di Pallywood, ora un hashtag popolare, il quale si mantiene sulla stessa falsariga della sua concezione originale: le morti di civili non sarebbero che un falso, i bombardamenti nient’altro che effetti speciali di computer grafica, le scene degli eventi recitate da “crisis actors”, attori specializzati nell’esagerare la severità di un conflitto per portare acqua al mulino della causa palestinese, di cui il più famoso è il cosiddetto “Mr. FAFO”, Saleh Aljafarawi, accusato di recitare il ruolo di vari personaggi nelle riprese “pallywoodiane”. Aljafarawi è in realtà però un influencer palestinese, e le immagini che lo ritraggono sono state estrapolate da suoi video musicali o clip postate sui social media, o accostate ad altri individui morenti a lui somiglianti.
Le prove, o meglio gli indizi a favore della teoria sono principalmente di due tipi: nel primo caso, video provenienti dalla zona di Gaza vengono presi e “dissezionati”, osservando elementi quali le “performance” dei presunti attori e le loro reazioni, a detta di chi condivide la teoria, non congruenti alla realtà circostante, giustificando le scene di bombardamenti o il fumo come veri e propri effetti di scena. Si tratta di argomentazioni spesso particolarmente ingenue, basate su idee distanti di “come ci si dovrebbe comportare in una zona di guerra”, non considerando la frammentarietà dei video mostrati o gli effetti che shock e trauma possono avere sull’essere umano.
Nel secondo caso, più malevolo, si condividono scene di set cinematografici che vengono ricollegati alla situazione attuale. Il più tristemente famoso è il video di seguito, ad oggi ancora circolante sui social media.
https://twitter.com/Marianasoux/status/1769335057330680011
Il problema? Il video non proviene dalla Palestina, ma dai retroscena del set di un corto cinematografico girato in Libano chiamato “The Reality” e pubblicato in rete il 20 settembre 2023. un titolo ironico considerando il suo attuale impiego per diffondere informazioni false. La viralità del video ha raggiunto anche ufficiali del governo israeliano, fra cui Ofir Gendelman, diplomatico e portavoce dei Media Israeliani, il quale in un Tweet (ora cancellato) ha ripubblicato il video chiedendo al suo pubblico di “non farsi abbindolare dalle bugie dei palestinesi“.
Un mondo di post-verità e di informazioni avvelenate
Pallywood si pone come l’emblema di uno dei più grandi problemi dell’ Information Age: l’impossibilità (o estrema difficoltà) nel reperire fatti oggettivi per via dell’incredibile quantità di dati, video, immagini a cui siamo sottoposti quotidianamente. Ogni singola notizia richiederebbe da parte del lettore un attento controllo delle fonti, dei fatti rappresentati, una valutazione comprensiva e super partes, il tutto in meno di quei cinque, massimo dieci minuti che la lettura di un articolo giornalistico richiede, o peggio, di quei trenta secondi che la visione di un video sui social media impone.
Un caos non ordinato, in cui diventa possibile credere, anche fuori da rigor di logica, in quel che si vuole. La teoria di Pallywood propone una visione disumanizzante, per cui tutto è facilmente finto, architettato e progettato, in cui il dolore e le stragi non sono reali, ma solo immagini, per cui non è più necessario provare empatia o porsi domande. Si tratta di una teoria che in sé nega implicitamente l’esistenza stessa di una guerra o di delle vittime palestinesi, perché in caso contrario non avrebbe senso credere in troupe cinematografiche. L’orrore è finto, la guerra è finta, i cadaveri dei bambini? Solo bambole, come ha dichiarato l’account ufficiale del governo israeliano per quanto riguarda l’omicidio del giovane Omar Bilal al-Banna in un Tweet ora cancellato in seguito alla smentita dei fact-checker.
Reazioni che trovano corrispettivo anche dall’altro lato della staccionata, anche se non supportata da enti ufficiali ma proliferante per i sempre più polarizzanti social media, dove si è accusata la famiglia di Omer Simen-Tov, ucciso quattro giorni prima di Omar in un attacco palestinese, di essere un gruppo di attori pagati, nella folle pretesa che in una guerra le vittime innocenti siano solo da una parte del conflitto, quella dei “giusti”. Ma dove stiano, questi “giusti”, diventa sempre più una questione di opinione personale.
Roberto Pedotti