Pakistan, assolto dopo 17 anni nel braccio della morte per blasfemia

PakistanLa Corte Suprema del Pakistan ha assolto Wajih-ul-Hassan per mancanza di prove dal reato di blasfemia: l’uomo era stato condannato a morte nel 2002, ma la recente sentenza ha stabilito che l’accusa non è stata in grado di dimostrare la paternità delle lettere alla base dell’incriminazione.

Si tratta di missive che l’uomo era imputato d’aver scritto a un avvocato, Ismail Qureshi, sulla base di una perizia grafologica e di una presunta confessione extragiudiziale, che la Corte Suprema del Pakistan ha sottolineato non essere elementi sufficienti per giungere a conclusioni certe di colpevolezza.

Qureshi sosteneva d’aver ricevuto cinque lettere da Hassan nel 1998 dal contenuto blasfemo, mentre la confessione sarebbe stata resa dall’uomo sul posto di lavoro a un superiore che lo condusse alla stazione di polizia, dove fu immediatamente arrestato. Nel giro di una settimana, un esperto di grafologia affermò che la scrittura dell’imputato era compatibile con quella delle lettere blasfeme.

Dopo 18 anni dall’arresto la Corte di Lahore ha ribaltato il verdetto

Hassan subì quindi il processo, che si concluse con la condanna impugnata davanti alla Corte di Lahore che questa settimana ha ribaltato il verdetto rimarcando, oltre alla fragilità delle prove, l’assenza di testimoni del presunto reato. I giudici hanno ricordato come la presunzione d’innocenza debba prevalere fin quando la colpevolezza dell’imputato non sia provata oltre ogni ragionevole dubbio.

Dopo 17 anni trascorsi in attesa dell’esecuzione, più un anno di carcere prima del verdetto, finalmente l’uomo dovrebbe varcare i cancelli della prigione di Kot Lakhpath nei prossimi giorni: il suo avvocato, Nadeem Anthony, ha raccontato che tutti piangevano di gioia. Quello di Wajih-ul-Hassan non è un caso isolato in Pakistan, dove accuse senza prove di blasfemia possono condurre nel braccio della morte, come pure a omicidi e linciaggi.

Dal 1987 a oggi oltre 1.300 persone accusate di blasfemia

Normalmente le leggi contro la blasfemia vengono utilizzate per perseguitare i gruppi minoritari, come si può facilmente riscontrare dai numeri: il 14% dei casi vede implicati membri di minoranze religiose, laddove i non-musulmani in Pakistan costituiscono solo il 3% della popolazione. L’accusa in sé può essere sufficiente a perdere la vita, perché è frequente che gli imputati vengano assassinati e sono stati ripetutamente bersaglio di violenze anche i sostenitori della necessità di rivedere la normativa, introdotta tra il 1980 e il 1986.




Secondo le stime della U.S. Commission on International Religious Freedom, dal 1987 ad oggi oltre 1.300 persone in Pakistan sono state accusate di blasfemia; più di 40 stanno scontando l’ergastolo o la pena capitale. Lo scorso anno è stata ribaltata la condanna a morte di Asia Bibi, imputata nel 2009, sempre presso la Corte Suprema di Lahore.

In tanti ancora dietro le sbarre, vittime delle leggi sulla blasfemia

In uno statement Amnesty International ha sottolineato la vaghezza e la natura coercitiva delle misure anti-blasfemia, che spesso vengono sfruttate per ottenere vendette personali e giustizia sommaria, chiedendo sia rilasciato un altro accusato, il professore universitario Junaid Hafeeze. Secondo l’organizzazione, questi ha trascorso più di cinque anni in isolamento, mentre nel processo si accumulavano i ritardi, con otto giudici che si succedevano senza che si arrivasse a decidere la sua sorte; nel maggio del 2014, il suo avvocato è stato ucciso da tre uomini armati.

Le lunghe sofferenze di Hassan si sono felicemente concluse, ma nessuno potrà restituirgli diciotto anni della sua vita né compensare la sua famiglia dell’interminabile tormento patito. In Pakistan sono tanti gli uomini e le donne che ancora attendono dietro le sbarre, vittime di accuse strumentali, di veder riconosciuta la loro innocenza.

Camillo Maffia

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