Paesi dove è legale la cannabis

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Negli ultimi anni molti stati hanno cominciato a cambiare le norme che regolano la Cannabis Sativa Linnaeus, la pianta da cui si ricava la droga illegale più consumata al Mondo oltre che una preziosa risorsa biologica, a prescindere dall’uso medico o ricreativo che se ne può fare. Anche in Italia, complice il fallito tentativo del referendum abrogativo, il tema della regolamentazione della cannabis torna prepotentemente d’attualità, con gli attivisti e i soggetti promotori che annunciano nuove battaglie. Di seguito una panoramica a livello globale dei principali cambiamenti sullo status giuridico della pianta e dei suoi principi attivi.

Oggetto principale di quest’articolo non è valutare i potenziali rischi e benefici delle possibili regolamentazioni della cannabis ma, piuttosto, fornire una concisa (seppur non esaustiva) panoramica sulla situazione legale della marijuana nel Mondo in relazione agli eventi più recenti. I paesi dove è legale la cannabis, in maniera “completa”, sono solo tre, tenendo presente che esistono diversi gradi e tipi di legalizzazione e decriminalizzazione.

Il più recente, rilevante e geograficamente vicino a noi è la piena legalizzazione avviata da Malta, primo paese in Europa ad agire in tal senso e terzo nel Mondo: a distanza di sessant’anni dalla Convenzione ONU sugli stupefacenti e di cinquanta dalla “guerra alla droga” proclamata da Richard Nixon, sono sempre di più gli stati che stanno modificando le politiche sulla marijuana. Di solito lo si fa iniziando a regolarizzare l’uso medico (inclusa la possibile importazione o esportazione per questo scopo), decriminalizzando quello ludico e consentendo la commercializzazione della “cannabis light”, oltre a favorire maggiormente la ricerca scientifica e l’impiego industriale.

Non è certo un caso che anche le Nazioni Unite hanno modificato, nel 2020, l’originaria convenzione del 1961: la cannabis è stata cancellata dalla tabella numero 4 del documento, mentre è stata lasciata nella tabella numero 1. In parole povere è comunque considerata una sostanza ad alto potenziale d’abuso che però, al contempo, può avere dei margini almeno sufficienti per impieghi medici.

Comunque la si pensi, credo sia un dato di fatto che le politiche proibizioniste adottate per le varie sostanze d’abuso illegali hanno ostacolato per decenni la ricerca scientifica, hanno reso più forti le organizzazioni criminali, hanno favorito la creazione di veri e propri narco-stati e hanno portato dietro le sbarre milioni di persone, complici le ingiustizie sociali e il conseguente “welfare criminale” che si alimenta con ogni sorta di contrabbando.

Dal boom della canapa “ornamentale” al fallimento del referendum abrogativo in Italia

Circa sette anni fa l’esplosione del mercato della canapa legale con solo CBD “a uso tecnico, di ricerca e ornamentale” veniva ritenuto, a torto o a ragione, un volano per la normalizzazione dell’altro principale principio attivo della pianta, il THC, quello che fornisce l’effetto psicotropo, “lo sballo” o “la cura”, a seconda dei punti di vista e degli usi. Nello stesso periodo un decreto ministeriale dà il vero e proprio via alla cannabis terapeutica , somministrabile in svariate maniere come il fumo (la più “primitiva” e sconsigliata in ambito medico) e la vaporizzazione, ma anche oli e supposte: la prescrizione da noi è prevista solo in alcuni casi e per specifiche patologie, mentre in altri paesi (come si spiega più avanti in questo post) anche dei sintomi di malattie “minimi”, se non pretestuosi, possono permetterne una prescrizione che ne “maschera” l’uso ricreativo (ovviamente per molti lo stesso confine tra uso ludico e medico può essere labile).

Le innovazioni legislative del belpaese si sono scontrate da subito con la questione della difficile reperibilità, problema che induceva tanti legittimi pazienti a ricorrere al mercato illegale o a coltivarsela da sé. Tutto ciò con le implicazioni di salute e legali conseguenti: pensiamo ai contaminanti e alle sostanze da taglio, per quanto riguarda la sicurezza del prodotto, e alle denunce per coltivazione di stupefacenti, per quello che concerne l’aspetto legale. Questo problema sanitario è diventato anche una battaglia civile di vari personaggi, come la politica Rita Bernardini e il paziente-attivista Walter De Benedetto, afflitto da una grave forma di artrite reumatoide.

Prima del referendum, che in pochissimo tempo ha raccolto le centinaia di migliaia di firme richieste, in circa vent’anni sono state più di venti le proposte di leggi che non sono giunte alla discussione in parlamento o non hanno passato il suo vaglio: le ultime di queste avrebbero dovuto colmare i vuoti legislativi che sarebbero seguiti alle abrogazioni referendarie. L’entusiasmo di promotori e attivisti viene smontato dalla Consulta lo scorso Febbraio: il referendum non è ammissibile perché andrebbe ad abolire il reato di coltivazione di tutte le sostanze (nella pronuncia si parla del papavero da oppio e delle foglie di coca, ma non di altri vegetali come i funghi allucinogeni). La risposta dei promotori del referendum riguarda la connessione intrinseca della parola “coltiva” con le varie sostanze contemplate nella legge sulla droga: non c’era maniera di eliminarla “selettivamente” solo per la canapa e non per le altre droghe… Tuttavia, per quanto concerne le foglie di coca e il papaver sonniferum, le trasformazioni necessarie per ottenere la cocaina e l’oppio dalle piante non sarebbero state toccate dall’eliminazione referendaria, rendendo tecnicamente impossibile la produzione di cocaina e oppio. Inoltre, nella storia italiana, sono stati registrati dei tentativi di coltivazione solo dei papaveri illegali. In più il parlamento avrebbe potuto colmare eventuali buchi normativi, in linea con la volontà popolare, se fosse stato possibile esprimerla. Magari partendo dalle proposte di legge succitate e attualmente ostacolate dalla Lega, che prevedono sostanzialmente la possibilità di coltivazioni “casalinghe” con massimo quattro piantine per consumatore.

Infine, oltre a una questione riguardante la lieve entità di condotte sanzionate penalmente e riconducibili anche ad altre sostanze, nella sentenza si fa riferimento ad altri due referendum analoghi presentati negli anni precedenti (uno nel 1990 e l’altro nel 1997) dichiarati inammissibili in quanto in contrasto con i trattati internazionali, altra motivazione addotta dalla Corte Costituzionale: i vari accordi globali imporrebbero l’impiego della cannabis solo per fini medici e scientifici. Ma i promotori del referendum la pensano diversamente: questa non sarebbe un’argomentazione valida perché non si auspicherebbe una legalizzazione tout court, ma soltanto una rimodulazione del regime sanzionatorio in linea con tali accordi. In più diversi paesi hanno modificato lo status legale della cannabis, legalizzandola formalmente o di fatto…

I cambiamenti più recenti in Europa: da Malta all’Ucraina

Molti attivisti vedono nelle politiche di paesi come Malta e Lussemburgo la prova che mostra come non sia vero che gli accordi internazionali non prevedano nessuna possibilità di legalizzazione. L’arcipelago vicino alla Sicilia è il primo paese europeo ad aver legalizzato l’uso ricreativo dell’erba: dopo una legge approvata lo scorso Dicembre si potranno detenere fino a sette grammi in pubblico, coltivare un massimo di quattro piante nel proprio domicilio o rivolgersi a coltivatori autorizzati per ottenerla. In un comunicato stampa diffuso dal governo si spiega che si porrà rimedio <<all’ingiusta difficoltà e all’umiliazione creata dalla criminalizzazione di adulti che scelgono di fare un uso responsabile della sostanza>>. Il Lussemburgo avrebbe dovuto precederla con un piano simile, piano rallentato dalla pandemia e che dovrebbe concludersi entro il prossimo anno: le piante coltivabili saranno quattro per nucleo familiare e la quantità trasportabile in luoghi pubblici di massimo tre grammi.

Anche la Germania ha annunciato un piano, da attuare entro quattro anni, per legalizzare il consumo di cannabis: l’obiettivo principale indicato dal commissario governativo per il problema degli stupefacenti, Burkhard Blienert, è quello di tutelare la salute dei consumatori con un prodotto più controllato, senza i rischi connessi a un livello di THC troppo altro e alle sostanze da taglio e, al contempo, prosciugando il mercato nero: per questo le tasse non dovranno essere troppo alte in modo da spazzare via la competizione del mercato nero. In più, spiega sempre Blienert, la politica tedesca fungerebbe da traino per il resto dell’Europa essendo il paese con l’economia più sviluppata dell’Unione. I primi a seguire l’esempio tedesco potrebbero essere l’Austria e la Svizzera, anche in virtù della loro vicinanza geografica e commerciale: in Austria, dal 2016, il consumo di modiche quantità per fini ricreativi può essere non punito se viene intrapreso un trattamento sanitario di concerto con le autorità ; in Svizzera invece è già legale la marijuana che non contiene più dell’un percento di THC, mentre il consumo di altra cannabis potrebbe essere punito con una multa e il solo possesso entro dieci grammi è depenalizzato. Inoltre nel 2021 è stato avviato un progetto pilota, della durata stimata di dieci anni, che coinvolge un numero limitato di consumatori di cannabis per studiarne gli effetti sulla società e valutare un accesso legale e controllato. In Francia, da Settembre del 2020, l’arresto per uso di cannabis potrebbe essere sostituito, a seconda del contesto, da una multa di duecento euro. In Grecia, dove il consumo ricreativo resta ancora punibile, circa un anno fa è stato avviato un piano per quello medico.

In Olanda da alcuni anni si studia un piano per ovviare alle leggi provvisorie che dagli anni settanta consentono la vendita di cinque grammi a testa nei coffeeshop, senza però che il canale di approvvigionamento di questi sia legale: la politica di “tolleranza” ha ridotto i rischi legati alla qualità della cannabis per i consumatori, oltre a tenere separati il mercato della “soft-drug” da quello delle droghe pesanti… Purtroppo però ha anche contribuito a creare una zona grigia che ha alimentato anche altri traffici, corruzione e riciclaggio di denaro. Situazione simile in Spagna dove un cavillo legale ha permesso la creazione dei noti cannabis club e il consumo in luoghi privati, nonostante la cannabis resti formalmente illegale. Anche in Belgio, dove l’uso personale è decriminalizzato, nel 2006 alcuni attivisti avevano provato un esperimento legale affine creando un cannabis social club: quattordici anni dopo venti militanti dell’associazione venivano condannati con pena sospesa. La loro associazione no-profit è stata costretta alla chiusura per l’onere economico delle spese legali.

Nell’area balcanica, in cui l’approccio conservatore verso la cannabis dell’ex Jugoslavia si fa ancora sentire, la Croazia e la Macedonia del Nord fanno da capofila: nel 2015 la Croazia ha approvato l’uso medico seguita dopo quasi un anno dalla Macedonia, e in entrambi i paesi si discute anche di una normalizzazione di quello ludico.

Seguendo il trend europeo di normalizzazione dell’uso medico della cannabis, anche l’Ucraina aveva avviato un progetto in tal senso, sospeso dalle tragiche esigenze imposte dalla guerra e dai pericoli per tutti i tipi di coltivazioni, incluse quelle di grano: uno scenario che potrebbe affamare molti e pesare sul nostro portafoglio, decisamente più “robusto” rispetto a quello di altri paesi. Il piano era sostenuto dal presidente Zelensky che la voleva gratis per i pazienti. Sarebbe diventata la prima repubblica ex-sovietica ad agire in tal senso.

La prima repubblica ex-sovietica a depenalizzare completamente il consumo ludico è invece la Georgia: nel 2018 la Corte Costituzionale del paese lo ha affermato specificando il principio secondo cui il mero utilizzo personale danneggia solo il singolo, e dunque attestando il diritto di decidere cosa fare del proprio corpo. Non sono previste nemmeno pene amministrative (cosa che in parte avrebbero voluto anche i promotori del referendum italiano) se, per esempio, il consumo (non la coltivazione) non avviene in posti pubblici o di fronte a minori. Qualche mese prima la stessa corte aveva già preso una decisione in tal senso, lasciando però una multa di circa duecento euro. La prima repubblica ex-sovietica ad aver decriminalizzato l’uso di cannabis potrebbe essere considerata dunque la Moldavia, dove però restano in vigore le pene amministrative della multa e dei lavori socialmente utili, in base a un regolamento del 2008. Seconda, cronologicamente, potrebbe essere considerata la Repubblica Ceca (che era però unita con la Slovacchia ai tempi dell’URSS), tollerante anche dal punto di vista della coltivazione: se ne potrebbero far crescere cinque piante, oltre a possedere pochi  grammi per uso personale di erba o hashish, incorrendo solo in una sanzione pecuniaria. In Russia il possesso per uso personale fino a sei grammi della sostanza è punito con una multa di circa venti euro e alcuni giorni di detenzione: sopra questo quantitativo, sempre riguardo al solo uso personale, le pene diventano molto più severe, arrivando fino a tre anni di carcere e due di lavori forzati, oltre a multe salatissime. Inoltre nella Federazione non esiste attualmente un piano per la cannabis medicinale.

La situazione in Asia e Oceania: l’uso medico “fittizio” israeliano e la “legalizzazione de facto” australiana che assomigliano ai modelli degli USA

Partendo dal medio oriente, il Libano è stato il primo paese arabo a legalizzare l’uso terapeutico. In Israele ritroviamo uno scenario simile a quello californiano degli anni novanta. Secondo quanto dichiarato alla rivista “Soft Secrets” dallo psichiatra Ilya Reznik, le modifiche al sistema di licenze per ottenere la cannabis medica a partire dal 2019 hanno creato dei <<pazienti fittizzi>> che pagano <<per ottenere una licenza che permette loro di consumare cannabis in un quadro legale>>. Sempre restando nella stessa area geografica la Turchia, molto rigida sul consumo a uso ludico, ha avviato un programma di coltivazione per fini medici nel 2016. Il primo paese del sudest asiatico a legalizzare sempre l’uso medico è stata la Tailandia nel 2018. Invece, come riporta l’’Associated Press, lo status della cannabis light a basso contenuto di THC resta in un ambiguo groviglio legislativo.

In Australia dal 2016 il governo ha permesso la coltivazione per scopi medici mentre, nella regione della capitale Canberra, a seguito di una politica di depenalizzazione laburista, dal 2020 è possibile coltivare fino a due piante a testa (massimo quattro per nucleo familiare) senza usare metodi artificiali di coltivazione e al di fuori di luoghi pubblici. È inoltre permesso ai maggiorenni il possesso di cinquanta grammi di prodotto finito mentre è vietato fumarla in pubblico, esporre i più giovani al fumo, conservarla in un posto in cui possono avere accesso i bambini e cederla anche se a titolo gratuito… Tutto questo però è in conflitto con la legge federale: il commercio di semi è vietato e la polizia potrebbe teoricamente perseguire i consumatori, anche se ciò in pratica non è avvenuto probabilmente per il successo di questa politica. Infatti non si sono registrati incrementi di problemi come quello delle ospedalizzazioni legate all’uso di cannabis.

La situazione nelle Americhe: il continente dove sono avvenute le prime storiche legalizzazioni

L’Uruguay è stato il primo paese al Mondo a legalizzare l’uso ricreativo della canapa indiana nel 2013, contribuendo a sdoganarla e preparando il “terreno giuridico-culturale” per la maggioranza degli stati del Sud e Centro America. Attualmente la legge prevede tre opzioni: l’acquisto in farmacia di una “cannabis di stato”, prodotta da poche aziende a capitale misto senza pubblicità e senza marchio, per un massimo di quaranta grammi mensili, al prezzo di circa un euro per grammo; la seconda opzione è quella delle associazioni create ad hoc, che possono avere massimo quarantacinque soci e novantanove piante; la terza opzione legale prevede l’iscrizione in un apposito registro per coltivarsela da sé, con un limite di sei piante e quasi mezzo chilo per raccolto. A seguirlo con diversi regolamenti a partire dal 2014 è stato il Cile, dove da circa un decennio l’uso personale era già decriminalizzato. Lo stato ha decriminalizzato la coltivazione di sei piante per questo tipo di uso e il possesso di circa mezzo chilo di prodotto finito. Da menzionare è anche il caso della Colombia: nel 2012 il governo decriminalizzava il possesso di venti grammi di cannabis. Tre anni dopo la Corte Suprema stabiliva che la coltivazione fino a venti piante non era reato: eventi che hanno portato a leggi più specifiche varate in un quadro normativo ancora in evoluzione. In Argentina è previsto un uso medico della pianta molto elastico e ancora in via di definizione: prima del 2017 poteva essere usata solo per l’epilessia. Adesso la medicina è stata estesa senza restrizioni specifiche da valutare caso per caso, includendo per esempio anche la terapia del dolore. Questa cornice legale ricorda il sistema “californiano”, già citato a proposito dei pazienti “fittizi” israeliani. La “maria” medica può essere acquistata in varie forme (come oli e creme) in farmacia o essere autocoltivata dopo aver ottenuto una licenza registrata. In Brasile negli ultimi anni la cannabis a basso tenore di THC è stata resa legale, quella con più principio attivo invece legale per usi medici e di ricerca. Resta illegale, ma decriminalizzato, l’uso ludico. Approcci legali come quello brasiliano si ritrovano anche in Ecuador, in Paraguay (dagli anni ’60 il più importante produttore di marihuana illegale della regione) e in Perù.

In Bolivia, dove l’ex presidente e leader sindacale cocalero Morales auspicava più libertà nella coltivazione della pianta di coca (lo slogan era “sì alla coca no alla cocaina”), ogni uso dell’altra pianta psicoattiva resta illegale. Comunque alcuni promuovono l’utilizzo medico della cannabis e, lo scorso Novembre, ne è stata autorizzata la prescrizione per un caso singolo: quello di una bambina affetta da una paralisi celebrale.

In Messico troviamo una situazione che ha delle affinità con il diritto e la politica del nostro paese: a seguito di alcune decisioni storiche culminate in una sentenza dello scorso giugno, la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali le norme che proibiscono la cannabis ricreativa così decriminalizzandola, e inducendo parlamento e governo a legiferare in materia. Mentre la versione medicinale dell’erba è legale nel paese, si aspetta che vengano definite le linee guida di quello che potrebbe essere il più grande mercato della “ganja” ricreativa sul pianeta.

Nell’area caraibica spiccano le innovazioni legislative della Giamaica, paese del Commonwealth britannico che ha dato i natali alla cultura rastafari, dilaniato da corruzione e violenza, fomentate negli ultimi decenni dai traffici di droga. Oltre a questo è considerata da molti la patria per antonomasia della ganja, parola di derivazione indiana, usata anche negli atti ufficiali dell’isola, residuo etimologico del passato coloniale nonché informale sinonimo di marijuana in tutto il globo. A partire dal 2015 il possesso fino a due once (quasi sessanta grammi) delle preziose infiorescenze, così come la coltivazione di massimo cinque piante sono considerate infrazioni minori della legge: non creano precedenti penali e comportano una multa. Fanno eccezione il possesso e la coltivazioni per chi ne pratica un uso religioso (riconosciuto dunque formalmente). La possibilità di acquistare cannabis terapeutica è estesa anche ai turisti con apposita prescrizione. Negli ultimi anni sono state varate nuove norme per regolare sia importazioni che esportazioni di prodotti medicinali, insieme a campagne di sensibilizzazione sui falsi miti legati alla marijuana.

Il Canada ha legalizzato la marijuana ricreativa nel 2018, diventando il secondo paese nel Mondo a fare ciò e il primo dei “grandi” del G7: questo scatenò le proteste della Russia, uscita quattro anni prima dal novero del “Gruppo degli otto” paesi più avanzati economicamente, proprio per il conflitto in Crimea. Motivo della protesta era ovviamente la presunta infrazione degli accordi internazionali già menzionati.

Negli Stati Uniti, per la seconda volta nel giro di due anni, una recente proposta di legge denominata MORE dovrebbe porre rimedio all’incoerenza legale americana: infatti mentre diversi stati americani hanno legalizzato la canapa indiana sia per scopo ricreativo che ludico (a partire dalla California negli anni novanta), a livello federale resta ancora illegale. Questa situazione crea varie complicazioni, la principale relativa al versamento di denaro nel circuito bancario: essendo la cannabis illegale per la legge federale non sono possibili i depositi bancari dei proventi. La proposta potrebbe però infrangersi sullo scoglio della camera alta americana, dove non ci sarebbero i numeri necessari per l’approvazione finale.

La situazione in Africa: il Sud Africa è l’unico paese legalmente “elastico” sul consumo ricreativo

Nel continente africano l’unico paese ad aver decriminalizzato il consumo personale è il Sud Africa, dove anche il consumo per fini medici è legale dal 2018. Ovviamente questo dato non tiene conto dell’eccezione delle Isole Comoros, dove negli anni settanta il leader socialista Ali Soilih l’aveva legalizzata per due anni. Altri stati hanno recentemente avviato la coltivazione per fini medici e industriali, alcuni di questi anche con il fine di esportare all’estero marijuana medica: il primo è stato, nel 2017, il Lesotho, ma ci sono anche l’Uganda, lo Zimbawe, il Regno di eSwatini (ex Swaziland, tra l’altro il precedente nome del regno è legato a una varietà di cannabis nota tra i consumatori di tutto il mondo come fosse un vino pregiato) e il Marocco (quest’ultimo è notoriamente il maggior esportatore, illegale, di hashish nel mondo). Nel continente ci sono state anche delle proposte per depenalizzare o legalizzare il consumo o, almeno, l’export medico e industriale, come in Egitto e in Ghana.

Nel Cameroon, dove la cannabis resta illegale, nel 2016 si progettava una megacoltivazione di circa due centinaia di chilometri quadrati con il coinvolgimento di aziende statunitensi del settore farmaceutico e dell’industria del tabacco, tramite l’intermediazione di un’impresa londinese. Il progetto è andato poi proverbialmente “in fumo”: l’indiscrezione, salita alla ribalta delle cronache internazionali, proveniva da un documento russo su cui un gruppo di “hacktivisti” avrebbe messo le mani (l’impresa, a sua detta, sarebbe stata vittima di estorsione riguardo anche ad altri documenti trapelati) poi condiviso con un consorzio internazionale di giornalisti (di cui fa parte la testata italiana “La Stampa”) …

Vedremo se le preziose coltivazioni saranno un’opportunità di sviluppo ed emancipazione per le comunità locali meno abbienti. Speriamo che non diventino una nuova forma di colonialismo e sfruttamento “green”, non a caso definita da molti una “febbre verde”… Una questione che , insieme a svariate altre legate alla legalizzazione di “erba” e derivati, a mio dire, difficilmente viene affrontata anche dagli attivisti pro-cannabis, in un dibattito generale sulla sostanza che ritengo sia fortemente polarizzato!

Un dibattito molto polarizzato: la cannabis non fa male o è la pianta del demonio?!

Il dibattito sulla droga illegale più diffusa al mondo è fortemente polarizzato: a un estremo si collocano quelli che la “sacralizzano” pur non appartenendo alla comunità religiosa che adora Haile Selassie come il nuovo Gesù, e cioè il rastafarianesimo, e nemmeno a certe sette hindu dedite al culto di Shiva e della ganja. Sono le persone che la ritengono totalmente innocua, panacea di ogni male, e magari auspicano una completa “de-regolamentazione” anarco-liberista che potrebbe però avvantaggiare grandi colossi corporativi, “Big Tobacco” in primis… Senza poi contare le opportunità di investimento o, in casi peggiori, di vere e proprie speculazioni in tantissimi altri campi, come quello delle bevande alcoliche e analcoliche.

All’estremo opposto si trovano molte persone ferme ai tempi di “Reefer Madness” (tradotto in italiano “La follia dello spinello”), film-documentario “educativo” statunitense degli anni trenta. Erano i tempi in cui il proibizionismo sull’alcol negli Stati Uniti falliva e la marijuana lo sostituiva nel ruolo di “nemico pubblico numero uno”: nel film si narrano le storie di giovani americani che, a contatto con l’ “erba pazza dei messicani” (marihuana era il termine usato dai messicani per la cannabis, termine che a sua volta deriverebbe dal loro contatto con i cinesi) impazzivano all’istante commettendo atroci delitti e suicidi.

Altra tesi rappresentativa di quest’altra visione estremista: la Cannabis Sativa Linnaeus è anche la droga di passaggio per antonomasia… Una volta provato lo spinello si passerebbe “automaticamente” ad altre sostanze più pesanti e problematiche! Quest’argomentazione è sicuramente debole almeno per un motivo: prima della cannabis si è soliti provare sigarette e alcol, che sarebbero dunque le “vere” e “prime” droghe di passaggio legalizzate. In più nel gruppo sociale di questa non moderata corrente di pensiero, estremamente intransigente, c’è molta stigmatizzazione dei consumatori, che vengono bollati come dei “tossici” anche se ne fanno un uso responsabile… Facendo ciò si attua una pericolosa generalizzazione, si fa di “tutta un’erba un fascio”, stigmatizzando anche chi ha bisogno di un aiuto per uscire da una dipendenza (o per gestirla riducendo il danno in maniera consapevole).

Sembrano invece non esserci dubbi sul fatto che tutte le sostanze d’abuso, se consumate in un’età troppo giovane, possono portare a disturbi e a un consumo problematico in maniera più rapida e duratura. Così si garantisce anche un profitto maggiore per chi può avvantaggiarsi del “mercato della dopamina”, e cioè del marketing che spinge abitudini malsane, oltre che passioni potenzialmente benefiche, oltre il limite di un equilibrato piacere.

Entrambe le visioni non aiutano a sviluppare un approccio laico al suo utilizzo in ambito medico e psichiatrico, oltre che sulle svariate applicazioni industriali, con tutti i vantaggi e i pericoli per le dinamiche socio-economiche implicate: queste spaziano dalla produzione di alimenti (non stiamo parlando degli “space-cake”, ossia dei dolcetti che sballano, ma dei prodotti già ampiamente commercializzati che si basano per lo più sui nutrienti semi, che non contengono principi attivi) alla bio-plastica ricavata dalla fibra delle piante. Tutti prodotti per cui le infiorescenze (quelle che si fumerebbero per capirci) sono considerate degli scarti della lavorazione.

L’opinione di chi ha scritto quest’articolo si trova nel mezzo…

 

Paolo Maria Addabbo

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