La paura dell’Iran divide i paesi arabi sull’escalation in Libano

Di fronte agli attacchi israeliani in Libano i paesi arabi moderati protestano ma non si scompongono mentre gli Stati Uniti restano probabilmente l’unico interlocutore per mediare una tregua tra Gerusalemme ed Hezbollah.

Un mese prima del pogrom di Hamas, nel settembre 2023, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva dichiarato alle Nazioni Unite che il suo Paese era “sull’orlo di una “pace storica” in Medio Oriente.

A distanza di un anno da quel discorso, mentre le forze di difesa israeliane sono impegnate in una campagna di raid nel sud del Libano, il leader israeliano è tornato a parlare al Palazzo di Vetro, con il Medio Oriente sull’orlo di una guerra regionale. Prendendo la parola alla 79° edizione dell’Assemblea generale, Netanyahu ha ribadito che Israele “combatte per la sua sopravvivenza” e per ottenere una “vittoria finale” sui propri nemici, accusando alcuni oratori di aver reso il Consesso una “palude antisemita” con le loro bugie e calunnie.

A New York molti delegati dei paesi arabi moderati hanno protestato contro la decisione di Israele di estendere la guerra al Libano, lasciando l’aula durante il discorso di Netanyahu. Nella stessa sede, l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani ha parlato apertamente di “genocidio” contro i palestinesi di Gaza, affermando che i raid in Libano non rientrano nel diritto di Israele a difendersi ma testimoniano l’interesse di Netanyahu a trascinare tutto il Medio oriente in un dedalo di combattimenti e di distruzione sproporzionata che potrebbe durare anni.

E tuttavia l’appello per un cessate il fuoco di 21 giorni in Libano, promosso da un’ampia coalizione di paesi che ha visto in prima fila la partecipazione di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti insieme a Usa e Francia, non ha sortito l’effetto sperato nel riportare alla ragione i due belligeranti.

In Libano sono saltate le ultime linee rosse

Dopo il 7 ottobre Netanyahu, appoggiato da un governo tra i più estremisti della storia israeliana, ha cercato di imporre il ritmo e l’intensità al conflitto con l’obiettivo di indebolire il più possibile Hamas. Colpire per primi e più duramente degli avversari in modo da spazzare via le residue speranze nelle popolazioni esauste; è stata questa la strategia adottata inizialmente Gaza ma poi estesa anche allo scontro con Hezbollah in Libano. Da un’anno a questa parte il partito-milizia sciita filo-iraniano ha intrapreso un conflitto a bassa intensità con Gerusalemme in segno di solidarietà al gruppo islamista che un tempo governava la Striscia.



Libano
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene dei cartelli mentre si rivolge alla 79a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Venerdì, venerdì 27 settembre 2024. (AP Photo/Pamela Smith)  

Nelle ultime due settimane l’esercito israeliano ha inflitto perdite pesantissime al  movimento libanese, decapitando l’intera linea di comando compreso il leader, Hassan Nasrallah, ucciso il 27 settembre in un raid nella capitale Beirut.

In questo clima di crescenti tensioni, sono stati diversi i paesi arabi che hanno cercato di imbastire una soluzione diplomatica. In prima linea per una tregua si sono schierati Egitto e Qatar. Il Cairo teme da mesi un’esodo di migliaia di profughi palestinesi verso il proprio territorio ed è impegnato a mediare il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas a Gaza. Mentre Doha ha svolto un ruolo chiave nel raggiungimento della breve tregua osservata dalle parti coinvolte nel conflitto nel novembre scorso.

Tuttavia, gli sforzi profusi a livello multilaterale attraverso le Nazioni Unite e la Lega Araba non sono andati oltre  la forma moralmente efficacie ma politicamente inconcludente delle condanne e dichiarazioni.

L’escalation in Libano smentisce il falso mito di un mondo arabo solidale e coeso

Il gruppo sciita libanese rappresenta una minoranza sul piano politico e religioso, protesa anima e corpo verso l’Iran e pronta ad assecondare i sogni egemonici della Repubblica islamica degli Ayatollah. Pur essendo musulmani, gli iraniani non sono arabi e non condividono con essi alcun ideale identitario sul piano culturale figurarsi su quello politico.  La minaccia rappresentata da Teheran nella regione ha spinto i paesi arabi a maggioranza sunnita a intavolare un dialogo politico e diplomatico propositivo con lo stato ebraico.

Per far fronte al pericolo crescente rappresentato dall’Iran e dai suoi gruppi fedeli nella regione, negli ultimi anni diversi paesi arabi si sono impegnati a normalizzare le relazioni con lo stato ebraico attraverso gli Accordi di Abramo, consapevoli che l’ombrello militare di Washington non è eterno.

La cerimonia della firma degli Accordi di Abramo, martedì 15 settembre sul South Lawn della Casa Bianca, 2020.

Poi il massacro del 7 ottobre ha rallentato il processo distogliendo Israele dal raggiungere un successo diplomatico degno di nota per intraprendere una guerra su più fronti contro le milizie alleate di Teheran. Ma il riavvicinamento  tra Gerusalemme e i paesi arabi non è affatto fallito, e le proteste dei leader arabi a New York nella sede delle Nazioni Unite ne sono in un certo senso la prova.

Oggi paesi come Arabia Saudita, Qatar, Emirati arabi Uniti ed Egitto non hanno la forza né la volontà di ingaggiare uno scontro con l’Occidente per difendere Gaza e gli Hezbollah in Libano magari replicando quanto avvenne negli anni ’70, dopo la guerra dello Yom Kippur quando gli stati arabi produttori di petrolio imposero un embargo petrolifero agli Stati Uniti e ai loro alleati per il sostegno a Israele.

Per i paesi arabi interrompere le relazioni commerciali ed economiche con Israele in segno di protesta per quanto sta accadendo in Libano e a Gaza significherebbe affrontare infatti un costo politico e diplomatico altissimo soprattutto nei confronti degli Stati Uniti che in questi anni si sono spesi moltissimo per propiziare il riavvicinamento tra lo stato ebraico e il mondo arabo moderato.

La morte del leader di Hezbollah rappresenta di per sé un evento potenzialmente in grado di far collassare il Libano nel caos della guerra civile. Uno scenario, questo, che se dovesse concretizzarsi potrebbe indurre i leader arabi a reagire con maggiore assertività, magari aumentando le pressioni diplomatiche sulla Casa Bianca.

Per ora però, l’unità e la coesione dei paesi arabi si è limitata alla fornitura di aiuti umanitari per la popolazione libanese e alla decisione di aprire in modo contingentato le frontiere per consentire ai civili in fuga dalle bombe israeliane di trovare riparo nei territori confinanti. Ma c’è anche un altro punto sul quale i leader arabi sembrerebbero concordare: salvare il Libano dall’orlo del baratro è un compito che spetta all’Occidente e agli Stati Uniti in particolare; loro hanno già fatto tanto impegnandosi a normalizzare le relazioni con Israele in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese, a prescindere dal fatto che ciò si realizzi o meno nel prossimo futuro.

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

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