Al-Shifa e la narrazione del conflitto israelo-palestinese

L'attacco all'ospedale al-Shifa di Gaza getta ombre sugli esiti del conflitto a Gaza

Medici dell'ospedale al-Shifa di Gaza

La notizia dell’attacco all’ospedale al-Shifa

Israele dichiara di aver ucciso 140 miliziani di Hamas durante l’assedio dell’ospedale al-Shifa di Gaza city.

L’assedio che dura ormai da quattro giorni ha scatenato reazioni della comunità internazionale e un’accesa diatriba giuridica sulla legittimità o meno dell’azione israeliana.

Il Diritto Internazionale Umanitario garantisce tutela e protezione di personale e strutture mediche coinvolte in un conflitto. Colpire strutture o personale umanitario è proibito e costituisce un crimine di guerra, secondo la Convenzione di Ginevra che regola questi aspetti. Nel 1977 sono stati approvati due protocolli aggiuntivi che estendono questa tutela a tutti i conflitti armati, anche quelli non internazionali.

Questa norma non è esente da eccezioni. Infatti, vi sono clausole che permettono di attaccare strutture mediche nel momento in cui esse vengono utilizzate al di fuori della sua funzione per attaccare il nemico, ospitare militari sani o stoccare munizioni.

L’ospedale al-Shifa, il più grande della striscia, ospitava più di sette mila persone tra pazienti e sfollati, ed è una delle ultime strutture sanitaria parzialmente in funzione nel nord della Striscia. Questo episodio avviene mentre lo spettro della carestia, che ha già iniziato a mietere vittime soprattutto tra neonati e persone fragili, aleggia su Gaza.

La guerra di informazioni

Durante il raid nell’ospedale più di 300 persone sono state interrogate sul posto e 160 sono state deportate in Israele per “ulteriori accertamenti”. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sostengono di aver intercettato e ucciso militanti di Hamas e aver individuato depositi di armi garantendo inoltre la salvaguardia di pazienti, personale sanitario e strutture mediche.

Tutte queste dichiarazioni sono smentite da Hamas e dal personale sanitario che opera all’interno dell’ospedale al-Shifa, che accusano Israele di aver ucciso civili e pazienti, oltre ad avere forzato migliaia di civili sfollati a fuggire da quella che era considerata una zona sicura per ritrovarsi nuovamente sotto i bombardamenti nel nord di Gaza.

L’analisi

L’ospedale al-Shifa è stato uno dei primi obbiettivi delle IDF nel loro intervento di terra a Gaza iniziato il 26 ottobre 2023, a seguito di due settimane di intensi bombardamenti che si sono concentrati soprattutto sul nord della striscia e su Gaza City. Le accuse verso Hamas, per giustificare l’assedio dell’ospedale, includevano la presenza di miliziani e depositi di armi all’interno della struttura mobilitati grazie all’uso dei tunnel sotterranei che collegavano l’area dell’ospedale al resto dei centri operativi di Hamas in tutta la Striscia.

L’obbiettivo era di isolare il nord dal sud e per questo motivo si esortava la popolazione civile a evacuare il nord dell’enclave. Il 5 novembre, il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari dichiarava: “da oggi c’è un nord e un sud di Gaza, un passo importante nella guerra contro Hamas”.

L’8 gennaio Hagari ha annunciato un rallentamento delle operazioni militari nel nord a seguito del successo delle IDF nell’aver “completato lo smantellamento della presenza militare di Hamas nella Striscia di Gaza settentrionale”.

Le pressioni che il governo Netanyahu e i suoi ministri stanno esercitando sugli alleati e sulla comunità internazionale a sostegno di un’operazione di terra a sud, nello specifico a Rafah, sono costanti. A sud si sono rifugiati su invito dell’esercito israeliano più di un milione di sfollati. L’operazione a detta dei vertici delle IDF è giustificata dalla volontà di eradicare la presenza di Hamas da Gaza. Secondo il presidente israeliano questo obbiettivo sarebbe stato raggiunto all’80%, per questo considera “ridicola” la possibilità di un cessate il fuoco permanente del conflitto ora.

Il recente Raid del 18 marzo all’ospedale al-Shifa è la prova che il conflitto continua anche nel nord, che l’esercito israeliano in cinque mesi di conflitto non è stato in grado di prendere il controllo nemmeno nel nord della Striscia. Se le dichiarazioni delle IDF sul numero di terroristi uccisi o arrestati all’interno dell’ospedale fossero comprovate questo costituirebbe la prova della capacità di Hamas di mobilitare miliziani e condurre operazioni militari persino a nord.

La conseguente valutazione indica come la prospettiva di eliminare la presenza di Hamas dalla striscia sia irrealistica e di come il conflitto rischia di protrarsi all’infinito. Anche se dovesse indebolire drasticamente la capacità militare del gruppo, l’esercito dovrebbe, a guerra finita, mantenere il controllo su un territorio ostile dove la resistenza di Hamas o di altri gruppi paramilitari continuerebbe, alimentata dalla brutalità di questi mesi di conflitto.

Il ruolo della resistenza palestinese

La resistenza palestinese ha radici profonde che risalgono a prima della fondazione dello stato israeliano nel 1948. Infatti, non nasce con Hamas, che ricordiamo venne fondato nel 1987 da Shaykh Aḥmad Yāsīn, ʿAbd al-ʿAzīz al-Rantīsī e Mahmud al-Zahar, come braccio armato dei Fratelli Musulmani a seguito della prima Intifada.

Le prime azioni belligeranti da parte del gruppo traevano ispirazione dal concetto caro alla resistenza palestinese del martirio. Azioni suicide volte alla volontà di resistere all’occupazione israeliana e che, nel corso dei decenni, hanno assunto la portata di un vero e proprio culto laico.

Si tratta di un fenomeno complesso, frutto di decenni di lotte contro il colonialismo britannico prima e il neocolonialismo sionista in seguito. Vi è un vero e proprio pantheon dei martiri, che non bada a distinzioni religiose o identitarie, i loro volti e le loro gesta sono commemorati come eroi caduti per la libertà e fanno parte della memoria collettiva storica della resistenza.

Un radicamento tale della celebrazione della resistenza è accomunabile al fenomeno partigiano in Italia, con tutte le differenze culturali, pratiche e storiche che non possono essere messe da parte. Questo accostamento serve a dare l’idea di come sia impossibile immaginare la repressione totale di ogni sorta di resistenza armata in Palestina.

La volontà del governo Netanyahu di protrarre questo conflitto sembra dettata dall’intenzione di posticipare la resa dei conti politica che grava come una spada di Damocle sulla testa presidente. Il suo governo, il più conservatore della storia di Israele, sostiene la possibilità di eradicare Hamas da Gaza e di controllare il territorio per prevenire la formazione di altri gruppi di resistenza armata in Palestina.

Il supporto degli Stati Uniti a Netanyahu è stato più volte messo alla prova, ma sino ad ora ha sempre retto. Il rischio concreto che l’invasione di terra di Rafah, durante il mese di Ramadan, possa essere la miccia di un allargamento incontrollato del conflitto nella regione è motivo di serie preoccupazioni da parte di tutta la comunità internazionale e del mondo intero.

La linea politica israeliana intanto è entrata a fare parte del dibattito nazionale relativo alla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti ed è sempre più probabile che sarà un argomento decisivo per delineare la vittoria o la sconfitta di Biden contro Trump, aprendo così la possibilità a evoluzioni nei rapporti tra Israele e Stati uniti che non erano contemplabili sino a pochi mesi fa.

Fabio Schembri

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