Ordinanza anti-kebab in nome del decoro urbano. Ma è questo il degrado?

anti-kebab

Il dolo risiede nel fatto di utilizzare sempre una terminologia vaga, per evitare di incorrere in atti illeciti o illegali

Ordinanza anti-kebab per fare la guerra ai locali etnici. Una vera ossessione per una certa parte politica (orientata a destra), come se evitare di vendere cibo etnico fosse sinonimo di decoro urbano. In tante province italiane, come Firenze, Verona, Padova, Venezia, Genova, sono stati presi provvedimenti per combattere il “degrado urbano”, come se il degrado nel centro città dipenda dal fatto di vendere cous cous o piadina. Una protezione nei confronti del commercio locale che viene compromesso, a detta loro, dalla presenza “straniera”: una delle lotte politiche più banali che fanno leva sulla paura del diverso, sullo stereotipo dello straniero “che ci ruba il lavoro”, sull’invasione dei migranti, sulla xenofobia, sul populismo.




L’ossessione è  tale che ha provocato un “incidente istituzionale” a seguito di un’ordinanza comunale troppo restrittiva. Succede a Genova. Una delibera approvata l’anno scorso dalla giunta di centrodestra del Comune di Genova aveva l’obiettivo esplicito di portare fuori dal centro storico le attività commerciali “etniche”, come ristoranti di kebab e altri servizi dedicati agli stranieri (money transfer, internet point e phone center).

L’incidente istituzionale di Genova

La delibera, per come era stata scritta, ha impedito l’apertura in città di una grande catena di negozi tedeschi. Il Comune, tra imbarazzo e superficialità, ha dichiarato di voler trovare presto una soluzione.
La catena tedesca è la Dm che vende prodotti cosmetici naturali, cibo biologico e prodotti per la cura della casa e della persona. Dm voleva aprire a Genova tre punti vendita, ma la delibera dello scorso giugno blocca qualsiasi intenzione. Il motivo principale è il divieto di aprire nuovi negozi che vendono più di una tipologia di prodotto (come Dm); una regola fatta (così si giustificarono) per ostacolare l’avanzata del commercio cinese, incline alla vendita di prodotti diversificati e spesso sleali nella concorrenza sui prezzi.

Dal Comune affermano che occorrerà una deroga o una clausola ad hoc, evidentemente per i tedeschi occorre intervenire e “correggere il tiro”. L’analisi è chiara: un’iniziativa palesemente discriminatoria, fatta per impedire l’apertura di esercizi commerciali da parte di alcuni “stranieri”.

Dov’è il dolo? Nel linguaggio generico

Il dolo risiede nel fatto di utilizzare sempre una terminologia vaga, per evitare di incorrere in atti illeciti o illegali. Il testo della delibera di Genova è apparentemente generico, parla della necessità di combattere «specifiche tipologie di attività commerciali», ma esplicito quando elenca i danni che queste non precisate attività avrebbero causato: «Distorsioni negli equilibri economici dell’area e riflessi negativi per prioritari interessi collettivi, tensioni sociali, lacerazione nelle consuetudini di vita degli abitanti, movimenti demografici innaturali e forzati, presenze etniche prevalenti nell’area».

La prima versione della delibera andava oltre: consentita l’apertura di nuovi negozi alimentari a patto che vendessero prodotti regionali, rischiando di rendere impossibile l’apertura di qualsiasi nuovo esercizio commerciale. Il regolamento venne modificato ma di base resta discriminatorio: le attività tipicamente svolte da imprenditori stranieri, dai kebab ai negozi multimarca, sono ancora vietate, così come sono vietate la vendita di prodotti non italiani (quindi anche americani o giapponesi) e i ristoranti di cucina “non europea”.

Iniziative come queste riducono l’offerta gastronomica in centro città a discapito dell’attrattività turistica, impedendo un maggiore sviluppo economico. Il degrado non dipende certo dal tipo di cucina che offre un ristorante, ma dalle condizioni generali di sicurezza e decoro che offre una città nel suo complesso, dalla pulizia delle strade alla tenuta dei giardini pubblici, dalla tranquillità della zona pedonale, alla presenza di un buon senso civico.

Di seguito qualche caso e qualche voce fuori dal coro.

Firenze approva l’ordinanza anti-kebab

A Firenze, la giunta Nardella approva nel 2016 un’ordinanza definita dallo stesso comune “anti-kebab” che proibiva la vendita di cibi stranieri in centro città. Ristoranti o negozi di alimentari nel centro storico di Firenze devono vendere al 70% prodotti toscani, l’unica deroga per gli stranieri, vendere prodotti “di qualità” (a proposito di linguaggio generico).

Pisa vota sì alla chiusura alle 21.00

È dello scorso aprile, la mozione approvata dal Consiglio Comunale di Pisa (con i voti favorevoli di Lega, Forza Italia, Nap-FdI, Gruppo Misto e Patto Civico) per chiudere alimentari e minimarket alle 21.00.Inquadrare le ore 21 come orario di chiusura degli esercizi di vicinato del settore alimentare o misto, delle attività di produzione e vendite artigianali di prodotti di alimentari non tipici del nostro territorio”, dice la mozione, invitando poi l’amministrazione comunale “a redigere un apposito regolamento nel quale sono presenti i presupposti indicati”.

Le basi normative sono contenute nel Decreto sicurezza di Salvini. Il Ministro fu il promotore dell’obbligo di chiusura alle 21 per tutti quei negozi etnici che la “sera diventano ritrovo di ubriaconi, spacciatori, casinisti”. Ma anche qui il linguaggio è ambiguo: che cosa si intende per “prodotto tipico del nostro territorio”? L’opposizione definì la mozione “un atto di razzismo istituzionale“.

Padova in controtendenza: cancella l’ordinanza anti-kebab

Padova cancella l’ordinanza anti-kebab, eredità dell’ex sindaco leghista su proposta della nuova giunta di centrosinistra. La norma abolita imponeva agli esercenti del centro storico di utilizzare almeno il 60% dei prodotti veneti. L’obiettivo più o meno esplicito era sempre quello di fermare le aperture di venditori di kebab e di altri cibi take away.

Marta Fresolone

 

 

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