Operazione militare israeliana: dopo giorni di scontri violenti, le forze armate israeliane lasciano Jenin

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Dopo giorni di violenti scontri, i soldati israeliani hanno lasciato Jenin, il campo profughi palestinese a nord della Cisgiordania. Il ritiro è iniziato nella sera di martedì 4 luglio.  A dare la notizia sarebbe stato Daniel Hagari, portavoce dell’esercito israeliano, secondo il quale gli obiettivi dell’operazione “sono stati raggiunti” ma “la lotta contro il terrorismo non è finita”.

Il ritiro delle truppe mette fine a una delle più grandi operazione militare israeliana su larga scala dalla seconda Intifada del 2000-2005. Nella notte, l’esercito israeliano ha denunciato il lancio di cinque razzi palestinesi  dalla Striscia di Gaza contro Israele, che sono però stati intercettati e non hanno provocato nessuna vittima o ferito. In risposta, Israele ha effettuato raid aerei sulla Striscia. Secondo fonti militari palestinesi, sarebbe stato colpito un sito militare di Hamas nel nord di Gaza ma senza causare feriti. Il bilancio degli scontri di questi ultimi giorni vede 12 palestinesi morti e 1 israeliano, più di 100 feriti e almeno 3000 civili evacuati da Jenin, compresi anziani e feriti. Tutte le infrastrutture sono state prese d’assalto, compreso l’ospedale governativo di Jenin. Bulldozer hanno distrutto le strade verso il campo e tutti i servizi idrici ed elettrici sono stati interrotti.



L’operazione militare israeliana

Tutto è iniziato nella notte tra domenica 2 e lunedì 3 luglio nel campo profughi di Jenin. Le autorità israeliane hanno dichiarato che si sarebbe trattato di una operazione “limitata” e con “obiettivi specifici”, ma il vero scopo dell’operazione sarebbe stato quello di eliminare le fazioni armate palestinesi a Jenin, roccaforte della resistenza.

Il campo profughi di Jenin

Il campo palestinese ospita più di 20mila profughi che furono espulsi dalle loro case nel 1948 durante la nakba (esodo forzato), per questo oggi rappresenta il simbolo della resistenza armata conto l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per Israele, invece, Jenin sarebbe un focolaio di militanti appartenenti ad Hamas e alla Jihad islamica da gestire con la forza. Non a caso, l’attuale governo israeliano è uno tra i più a destra di sempre, con posizioni conservatrici e ultraortodosse e con esponenti di maggioranza come Itamar Ben Gvir (Ministro della Sicurezza nazionale) che rifiutano la formula della “soluzione dei due Stati” e sono convinti che l’unica soluzione per risolvere il conflitto israelo-palestinese sia la guerra.

Raid aerei, droni armati, mezzi blindati e un dispiegamento di uomini enorme hanno colpito il campo di Jenin.  La violenta operazione militare israeliana è stata definita dal sindaco Nidal Obeidi come “un vero massacro”, mentre il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) ha condannato l’operazione definendola “un nuovo crimine di guerra” da parte degli israeliani, con il “tentativo di far detonare la situazione, per trascinare l’intera regione nella spirale della violenza”.  Tuttavia, si denuncia anche la perdita di credibilità e controllo da parte dell’ANP, unico interlocutore ufficiale dello Stato Ebraico, che ha portato negli anni alla creazione di una nuova generazione di combattenti palestinesi di resistenza all’occupazione israeliana non controllati dalle autorità palestinesi.

L’attentato a Tel Aviv

A Tel Aviv, a poco più di 24 ore dall’operazione militare israeliana a Jenin, un palestinese di 20 anni si è lanciato con la sua auto contro una fermata del bus in una colonia facendo almeno 8 feriti, poi ha iniziato ad aggredire i passanti con un coltello. Il giovane è stato poi ucciso a colpi di pistola. Hamas ha rivendicato subito l’attentato, invocando una “eroica vendetta” e riferendosi a una “prima risposta ai crimini dell’occupazione contro il nostro popolo a Jenin”. Netanyahu ha risposto definendo “odioso” l’attacco e ha avvertito che “chi pensa che un attentato del genere ci blocchi dal proseguire la nostra lotta al terrorismo si sbaglia”, aggiungendo che “questa estesa operazione militare non sarà la sola”.

Le tensioni che hanno portato all’offensiva israeliana

Tensioni tra coloni e palestinesi

L’offensiva arriva dopo qualche settimana dall’ultimo scontro in cui un raid aereo israeliano ha colpito il campo di Jenin causando sette morti tra cui una ragazza di 15 anni e 91 feriti. In risposta, due giovani palestinesi avevano messo in atto un attacco nell’insediamento di Eli e hanno ucciso tre coloni israeliani e ferito quattro persone. A loro volta, i coloni hanno riversato la loro rabbia nel vicino villaggio palestinese di Huwara e nelle località circostanti, dove hanno dato fuoco a campi coltivati, auto e abitazioni.

A seguito dell’attentato di Eli, Netanyahu aveva dichiarato che la vendetta sarebbe stata rapida.  In questo caso, risulta scontato il commento di Ugo Tramballi, Senior Advisor di Ispi, secondo il quale “il primo ministro di un paese ritenuto democratico promette giustizia, non vendetta. Al caos di Jenin e in altre città palestinesi, Israele continua a dare risposte militari ma mai politiche”. Questa escalation di violenza è quindi dovuta a un mix pericoloso di militanza radicale diffusa tra i palestinesi, dovuta anche all’indebolimento e al discredito delle loro autorità politiche  e una colonizzazione e una retorica israeliana sempre più prepotente che godono della protezione di partiti ormai affermati sulla scena politica.

Non a caso, gli insediamenti illegali israeliani, già condannati dalla comunità internazionale e mai, di fatto, riconosciuti in quanto sono “una violazione flagrante del diritto internazionale” e un “ostacolo significativo alla realizzabilità della soluzione dei due stati”, continuano ad essere costruiti in tutta la regione in modo da ostacolare una continuità territoriale su cui possa, un giorno, nascere lo stato della Palestina.  Persino gli Stati Uniti si sono detti profondamente “turbati” dalla decisione del governo di Israele di accelerare la costruzione delle colonie in Cisgiordania, programma portato avanti dai partiti sionisti estremisti che sostengono l’esecutivo.

Politica interna israeliana

Riguarderebbero anche la politica interna israeliana le ragioni che hanno portato all’offensiva militare a Jenin. L’operazione militare israeliana avrebbe avuto infatti anche l’effetto secondario di ricompattare i partiti politici israeliani, spaccati dalla riforma della Giustizia voluta dal premier, avvicinando anche il sostegno dell’opposizione. L’unica a  non essere d’accordo è Merav Michaeli, del partito laburista, la quale sostiene che “l’unica sicurezza per Israele passa attraverso un accordo diplomatico e una soluzione dei due Stati” per porre fine al conflitto.

Tuttavia, secondo gli esperti, l’operazione sarebbe stata approvata a seguito delle pressioni politiche esercitate dalla frangia più estrema della destra israeliana e dai coloni. I loro politici di riferimento, soprattutto il Ministro della Sicurezza nazionale Gvir e quello delle Finanze Smotrich, sono ben rappresentati e compongono una parte importante della maggioranza di governo. Tra i motivi interni dell’operazione quindi troviamo il tentativo di tenere insieme la maggioranza, accontentando le fantasie guerrafondaie delle frange più estreme del governo, e allo stesso tempo, contenere il fenomeno delle vendette private dei coloni in West Bank nei confronti dei palestinesi.

L’assordante silenzio internazionale

In questo quadro di violenza, il presidente palestinese ha esortato la comunità internazionale a “rompere il suo vergognoso silenzio e ad agire seriamente per costringere Israele a fermare l’aggressione”. Evidente infatti è stata l’assenza di una condanna forte da parte della comunità internazionale. Né da Washington, né dalle capitali europee, che hanno già dichiarato illegali le colonie israeliane e che dovrebbero sostenere la soluzione a due Stati, è arrivata una sola parola. Lunedì la Casa Bianca aveva dichiarato di sostenere “la sicurezza e il diritto di Israele a difendere il suo popolo contro Hamas”, mentre l’UE è rimasta in silenzio. Si tratta di un fattore grave, se si pensa che una posizione decisa sul conflitto e in particolare sugli ultimi scontri sarebbe importante non solo per scongiurare un’escalation della violenza ma anche per salvare ciò che rimane della risoluzione di pace. Inoltre, è stato notato da molti come l’Occidente abbia contrastato fortemente l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, ma non abbia fatto lo stesso con la questione palestinese, solo perché in questo caso l’oppressore è un tradizionale alleato.

Nel 2022, secondo i dati di ISPI, le forze israeliane hanno ucciso più di 170 palestinesi, tra cui almeno 30 minori, a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania: si tratta dell’anno che ha visto più morti palestinesi dal 2006. Nel 2023 la situazione peggiora. Si contano già 160 palestinesi uccisi, tra cui 26 minori, e i numeri sono destinati, tragicamente, ad aumentare. Intanto oggi, dopo il ritiro delle truppe israeliane, si sono celebrati i funerali dei 12 palestinesi morti, 5 dei quali minorenni (secondo l’agenzia palestinese Wafa), a cui hanno partecipato migliaia di persone che chiedevano protezione internazionale per i civili palestinesi disarmati nei territori occupati.

Aurora Compagnone

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