Al vertice di Vienna di mercoledì 5 ottobre l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) e i suoi alleati, conosciuti insieme come OPEC+, hanno deciso un taglio della produzione petrolifera di 2 milioni di barili al giorno. Una tale riduzione equivale al 2% dell’offerta mondiale di greggio ed è stata giudicata necessaria per rispondere alla crescita dei tassi di interesse in Occidente e all’attuale debolezza dell’economa globale. Lo scopo è di incrementare il prezzo del greggio, sceso sotto i 90 $/b rispetto ai 120 $/b del giugno scorso.
Cos’è l’OPEC+
L’OPEC+ è un’alleanza costituitasi nel 2016, quando una congiuntura economica particolarmente sfavorevole ai produttori fece scendere il prezzo del barile a 27$. Il cartello comprende i 13 membri storici dell’OPEC – come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Venezuela -, più 11 membri esterni – fra i quali la Federazione Russa, il Messico e il Kazakistan – che, per consuetudine, collaborano con i membri ufficiali quando i prezzi sono bassi e l’offerta di greggio necessita di essere ridotta. I 24 paesi, complessivamente, erogano il 55% delle forniture globali di petrolio e possiedono il 90% delle riserve.
La risposta statunitense
Immediata la risposta statunitense, con il Presidente Joe Biden che ha giudicato “miope” la scelta presa dai ministri dell’energia di OPEC+. La Casa Bianca ha aggiunto che aprirà colloqui con il Congresso al fine di trovare nuovi strumenti per ridurre il controllo dell’Opec sui prezzi dell’energia. Mentre il segretario statunitense al Tesoro Janet Yellen, intervistata dal Financial Times, ha definito il taglio dell’offerta come inutile e imprudente per la salute dell’economia globale e, in particolare, per i mercati dei paesi emergenti che già lottano contro gli alti prezzi dell’energia.
Il timore di alcuni analisti è che l’Arabia Saudita, leader de facto dell’organizzazione, sia voluta correre in soccorso del regime putiniano. Maggiore sarà il prezzo del petrolio, più facilmente la Federazione sarà in grado di mitigare gli effetti delle sanzioni e di finanziare la guerra in Ucraina.
I motivi del disappunto di Washington
Il taglio alla produzione voluto da Riyad e l’insofferenza che per esso si è sollevata a Washington, tuttavia, non sono riconducibili alle sole conseguenze che si manifesteranno sullo stato di salute della macchina bellica russa. La decisone presa a Vienna ha e avrà implicazioni nella politica interna statunitense come in quella saudita. Allo stesso tempo, sotto il punto di vista dei rapporti di influenza fra stati, lo si deve sottolineare, la riduzione ha reso manifesto – ancora una volta – un forte ridimensionamento della capacità di dissuasione statunitense.
Un incremento del prezzo del barile si traduce in un aumento del prezzo della benzina alla pompa, quindi in maggiori costi per il consumatore. Premesso che il Presidente Joe Biden quest’estate ha affrontato le proteste che a livello locale si sono scatenate quando il prezzo del gas ha toccato quota 27$/MWh (praticamente la cifra che si pagava in Europa prima dello scoppio della guerra). Si potrà comprendere la criticità della situazione se, come pare, nelle prossime settimane, aumenterà il prezzo della benzina. Gli elettori potrebbero difatti punire il Partito Democratico alle elezioni di midterm, in programma martedì 8 novembre.
La maggioranza democratica al Congresso è a rischio ed è indubbio che un alto costo del carburante sposterà una quantità significativa di consensi verso l’area repubblicana. Per questo motivo alla Casa Bianca si sono alzati i toni quando è arrivata la notizia del taglio alla produzione. E non è escluso che, nell’immediato futuro, l’amministrazione Biden decida di pompare più greggio dai pozzi federali per aumentare l’offerta, stabilizzare i prezzi e recuperare voti.
I motivi della decisione saudita al vertice OPEC+
Da parte saudita le implicazioni del taglio alla produzione petrolifera sono sostanzialmente due. La prima si ritrova senza dubbio nella accresciuta potenza negoziale del principe ereditario Mohammad bin Salman che, il settembre scorso, in linea con la dinamica di accentramento del potere nelle sue mani, ha ottenuto la carica di primo ministro. Era noto che Bin Salman fosse, da diversi anni, a causa della demenza senile cui è affetto il Re Salman, il vero leader dell’Arabia Saudita. Tuttavia, il fatto che la drastica decisone dell’OPEC+ sia stata presa solo pochi giorni dopo la sua nomina a capo dell’esecutivo è un messaggio che il principe – già presidente dell’ARAMCO, la compagnia petrolifera saudita – invia a Washington e ai paesi consumatori: non si potrà più prendere alcuna decisone in materia di mercato petrolifero senza prima avere il suo consenso. Ora più che mai è lui a detenere il comando del cartello.
Rentier State e diversificazione economica
In secondo luogo, il provvedimento di Vienna, secondo la logica di Riyad, si inserisce nel quadro di una politica economica volta a capitalizzare profitti piuttosto che fornire assist a Putin. Da dieci anni a questa parte le petromonarchie del Golfo Persico, con Arabia Saudita in testa, stanno affrontando un vero e proprio cambio di paradigma nella gestione delle rendite da idrocarburi. Si tratta della transizione da un regime di Rentier State verso una diversificazione economica detta post-oil.
Lo stato a funzionamento rentier è un regime politico che fonda la sua rendita su una o poche fonti di entrate – in genere gli idrocarburi – altamente remunerative. Questo processo porta a deprimere la democrazia in quanto le entrate statali non derivano da produzioni interne ma dipendono, piuttosto, dall’andamento dei mercati internazionali.
Il possesso di grandi quantitativi di denaro, non soltanto consente a questi stati il mantenimento di un forte apparato coercitivo ma garantisce anche un efficiente sistema di welfare. Gli stati patrimonialistici come le monarchie del Golfo escludono i loro cittadini dal pagamento delle tasse – luce, gas – e ridistribuiscono la rendita sotto forma di sussidi – come l’università gratuita – o con posti di lavoro nel settore pubblico; in cambio di un’adesione implicita a uno stato autoritario e all’assenza di diritti politici. In questi paesi le riforme sono sempre calate dall’alto e mai frutto di rivendicazioni dalla base popolare. No taxation, no representation.
Transizione Post-oil
A causa delle politiche di economia green avviate da molti paesi occidentali, si prevede una riduzione della domanda globale di greggio entro il 2040. I paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) hanno messo in moto programmi di diversificazione degli investimenti per permettere alle loro economie di emanciparsi dalla sola rendita da idrocarburi. I progetti prevedono la costruzione di nuove infrastrutture, come Vision 2030 – città futuristica in costruzione all’ingresso del Golfo di Aqaba -, o porti che fungano da perno per le rotte marittime più importanti dell’indo-pacifico. La diversificazione investe anche nei meccanismi di potenziamento del soft power. Indispensabile per coprire la maschera dispotica con cui le monarchie petrolifere sono conosciute all’estero, e renderle più desiderabili agli occhi del turismo e degli investitori (ne sono un esempio l’organizzazione dei mondiali di calcio in Qatar o l’inaugurazione del museo Louvre di Abu Dhabi).
Non serve aggiungere che la diversificazione post oil è finanziata con i soldi provenienti dalla vendita di gas e petrolio. È stato stimato che per portare a termine mega-progetti come questi occorre che il prezzo del petrolio resti stabilmente sopra i 100 $ al barile. Il taglio deciso dall’OPEC+ ha lo scopo di mantenere alto il prezzo di questo bene per permettere ai paesi del Golfo le transizioni suddette, poco importa se a beneficiarne sarà anche la macchina bellica russa.
Il disimpegno americano nel Medio Oriente e le sue conseguenze
Nel luglio scorso il presidente Joe Biden è volato in Medio Oriente per rassicurare alcuni paesi partner che la regione resterà una priorità per la politica estera di Washington. La strategia statunitense in questo contesto si è in realtà fortemente ridimensionata e la ritirata dei soldati americani da Kabul nell’agosto del 2021 è solo l’esempio più manifesto di questa tendenza. Difatti Biden ha dichiarato ai suoi interlocutori di dimenticare l’approccio tenuto nei loro confronti dai suoi tre predecessori: gli Stati Uniti, oggi, preferiscono mantenere la stabilità della regione attraverso la diplomazia, piuttosto che con la proiezione militare.
Sebbene gli Stati Uniti mantengano in attività numerose basi e la fedeltà di alcuni attori resterà adamantina; tuttavia, quando in una zona del mondo diminuisce così tanto la presenza di un attore, gli spazi lasciati liberi fra le maglie vengono subito colmati da entità statali maggiormente assertive o da moti di insubordinazione dei vecchi client.
È il caso dell’Arabia Saudita. All’aumentare del disinteresse USA per la regione ha incrementato le vendite di idrocarburi a paesi prima guardati con sospetto. Il principale di questi nuovi arrivé è la Cina che seguendo lo sviluppo delle “Vie della Seta”, non solo acquista quantità di petrolio mai viste prima dai Paesi del Golfo, ma, di buon grado, investe i suoi soldi nei progetti di diversificazione post oil. Il taglio della produzione decisa dai paesi OPEC+ a Vienna, prende le mosse proprio dal fallimento dei colloqui di luglio dove Biden aveva chiesto a Bin Salman di pompare più petrolio in nome della stabilità dei mercati. Quella richiesta, già disattesa mesi fa, ha subito un ulteriore schiaffo al vertice della settimana scorsa.
Tutto ciò dimostra il lampante indebolimento della capacità statunitense di dissuadere i partner dal prendere scelte non linea con la sua idea di ordine mondiale.
Enrico Raugi