Once Upon a Time in 2020 è la sua prima mostra fotografica personale. Un titolo programmatico per un’esposizione che racconta, attraverso ritratti fotografici, questi mesi difficili e paradossali che hanno travolto l’umanità. Partendo dalla sua quotidianità ed esplorando una galassia composita di vite ed esperienze, Fabrizio Spucches inizia la sua narrazione per immagini: c’era una volta, nel 2020… La mostra è ad ingresso libero ed è possibile visitarla presso Scalo Lambrate, un vecchio scalo ferroviario milanese trasformato in centro polifunzionale.
Tutto ha inizio in una vasca da bagno. Minuscola. Uno spazio ristretto in cui Fabrizio Spucches si ritrae nei primi giorni del lockdown, a fine febbraio 2020. Nei suoi occhi si legge ancora una punta di inconsapevolezza: come tutti noi, non poteva sapere che quei giorni erano solo l’inizio. Once upon a time in 2020…l’inizio di una favola cupa.
È una foto che ho scattato spontaneamente. C’era questa situazione nuova, ero nel mio appartamento, in una casa popolare di viale Tibaldi. Dopo quella foto ho continuato a scattare dove ho potuto. Io e la mia compagna, in casa. Nel condominio. Al supermercato. In quei pochi spazi nei quali si era ridotta, nel frattempo, la nostra esistenza.
Fabrizio inizia la sua carriera una volta uscito dall’Accademia delle Belle Arti di Catania. Da lì girovagherà in Europa, tra Erasmus in Francia e anni di studio e apprendistato in Inghilterra. Passa da “Sterpaia”, la scuola-laboratorio di Oliviero Toscani, dove farà uno stage di due anni. Gli anni successivi raccontano una storia comune: i trent’anni sono il momento in cui si sceglie davvero di iniziare un percorso; le scuse stanno a zero e ci si deve mettere alla prova. Perciò apre uno studio di comunicazione, insieme alla compagna, e fa della sua passione il suo mestiere. Sarà anche direttore creativo per Fabrica – sempre di Oliviero Toscani, con cui rimane in ottimi rapporti – e per Benetton.
Ma, come racconta lui stesso, è stato proprio durante i mesi difficili del lockdown che si è aperta – nel suo tempo e nei suoi pensieri – una finestra per attraversare uno spazio artistico più intimo e personale. A partire da quella minuscola vasca da bagno.
Un filo di pensieri
Mentre risponde alle mie domande, Fabrizio sembra riannodare un filo di pensieri, ripercorrendo i ricordi di quello che, in certi momenti, è sembrato un gigantesco incubo collettivo. Già, a suo modo, ammantato di leggenda – cupa e tragica – come lascia intendere il titolo della mostra: c’era una volta…
Ma quando hai capito che stava succedendo davvero “qualcosa”? Qual è il momento in cui hai capito di ritrovarti in mezzo ad un evento storico da raccontare?
La risposta di Fabrizio arriva senza esitazione:
È stato grazie alla mia vicina, l’ho capito parlando con lei. È la donna anziana che copare in una foto, ritratta nuda sul letto, appena sveglia, con la mascherina in mano. In quei giorni è diventata come la mia musa, il simbolo dell’umanità alle prese con questo evento epocale. Il senso della foto rimanda un po’ anche al titolo della mostra. L’ho scattata alle sei del mattino, perché volevo cogliere quel momento in cui tutti noi, aprendo gli occhi, ci chiedevamo se avevamo sognato tutto, se era stato un incubo. La mascherina era lì a ricordarci che invece era tutto vero.
I primi scatti
Quindi, da lì in poi, sei andato avanti a scattare.
Sì. Dapprima ho fotografato i miei vicini di casa. Coi quali, fino a quel momento, avevo un rapporto di buon vicinato molto milanese, distaccato: buongiorno e buonasera, la cordialità di poche parole quando ci si incrociava e niente più. Ho iniziato a conoscerli e a fotografarli: davanti a casa, alle finestre, quando uscivano a fare la spesa, quando andavano a buttare la spazzatura. In quelle poche occasioni in cui potevamo uscire e mantenere una specie di socialità.
Nelle foto che scatti in quei giorni, mi saltano all’occhio due aspetti: la solitudine delle persone che ritrai e il rispetto per la loro umanità, nonostante il tuo obiettivo si spinga nell’intimità della vita e degli sguardi delle persone.
Quando ho capito di voler raccontare quello che stava succedendo attraverso le persone, ho ampliato – per quanto possibile – il campo dei miei scatti, fotografando soggetti particolari, categorie di persone definite, spesso, “diversi”. In un certo senso, ho capito, fotografandoli, che le risposte che cercavo erano a portata di mano. Tra i miei vicini e tra le persone che abitavano e attraversavano il quartiere. In quella solitudine che era una condizione esistenziale che coinvolgeva un po’ tutti. Per un fotografo trovare dei soggetti che abbiano qualcosa di particolare è importante, così come è importante – appunto – il rispetto nel fotografarli; che siano loro a mostrare e raccontare.
Working class virus
In un video che si trova sugli account dello studio di Fabrizio, sulle note quasi ossessive dei Pink Floyd, scorrono le immagini di quei giorni, accompagnate dalle parole delle persone incontrate. Le testimonianze rimandano un collage di sensazioni e paure che sembra provenire da un mondo lontano, da un film di fantascienza, da un contesto apocalittico: ma sono persone normali, colte negli attimi di una nuova quotidianità. E con le loro parole rimandano al racconto che Spucches fa attraverso le immagini. E così, scatto dopo scatto, Once upon a time in 2020 prende forma come un racconto collettivo, filtrato dall’obiettivo di Spucches.
La mostra è divisa in quattro sezioni, la prima – quella che inizia dall’autoritratto di Spucches – si intitola “Working Class Virus”.
Dopo me stesso, il condominio, i dintorni, ho allargato lo sgardo andando a fotografare anche chi poteva – e chi doveva – uscire. Quelli che hanno continuato a lavorare o ad andare in giro in quell’atmosfera di solitudine spettrale. Food racer, edicolanti, escort, preti, volontari del soccorso, necrofori, persone a spasso con i cani. Sono state anche foto emotivamente difficili da scattare, soprattutto quelle all’obitorio.
Ecco, tra queste una mi ha colpito in modo particolare: quella in cui si vede solo un profilo, un naso, spuntare dalla cerniera semiaperta di un sacco mortuario.
È stata una foto difficile da scattare. La situazione la puoi immaginare: bare in fila, salme ad attendere nei sacchi. Quel rispetto di cui parlavamo prima ci voleva a maggior ragione qui. E davvero non c’era bisogno di niente di più: mi è parso che quel particolare raccontasse già tutto quello che vedevo intorno a me. Così come non c’era nulla da aggiungere alle foto dei volontari esausti durante il servizio. Ho scattato tutte quelle foto con la massima onestà.
Ricchi vs. poveri
Come la situazione si allenta un po’, decidi di indagare con il tuo obiettivo un aspetto diverso, quello che hai raccolto nell’altra sezione della mostra: i ricchi e i poveri.
Dopo aver fotografato persone che hanno visto la loro vita sconvolta dall’epidemia – nel frattempo diventata pandemia mondiale – ho cercato quelli che ne erano stati meno toccati: i ricchissimi e i disperati. Ho scattatato le foto tra via Montenapoleone e la mensa dei poveri “Pane quotidiano”. Ho fotografato queste due categorie decontestualizzandole, usando il fondale bianco, perché mi interessava far risaltare quello che raccontavano coi loro sguardi.
E cosa ti hanno raccontato?
Ho trovato un’affinità tra i loro sguardi, nonostante le loro condizioni diamentralmente opposte. C’era la sfrontatezza di chi non era stato toccato dalla pandemia. I ricchi non avevano perso niente, i disperati non avevano niente da perdere. Ma c’erano anche delle differenze, in relazione al grande problema universale della morte: i ricchi ne avevano paura, gli sguardi dei disperati raccontavano invece di una dignità quotidiana che superava anche quella. Come chi la morte l’ha già vista e l’aspetta. Credo che queste similitudini e queste differenze si colgano bene anche grazie alla disposizione a scacchiera con cui sono esposte, in maniera alternata, questi ritratti.
Com’è stato andare in via Montenapoleone per convincere questi straricchi a posare per te?
Non è stato semplicissimo… c’era un po’ di diffidenza, perché per loro, più che per le altre categorie, l’apparenza conta e l’abito fa il monaco. Così, le prime volte, qualcuno mi guardava e mi schivava pensando che fossi lì a fare l’elemosina! Ma, a parte quello, forse la situazione mondiale li ha spinti a sviluppare una certa riluttanza, quasi una vergogna nell’esporre la propria ricchezza.
Once upon a time in 2020: stessa spiaggia, stesso mare (?)
Le tracce – emotive, ma anche visive – di questa situazione, sono al centro anche delle altre sezioni della mostra, giusto?
Sì, in una ho ritratto i membri di un’associazione di naturisti. Sono dei nudi…con mascherina. Non sempre indossata, ma sempre e comunque portata con sé. Al polso, al braccio, nella mano che tiene il guinzaglio. Sempre con loro, a portata di mano.
E poi la sezione che da il nome all’intera mostra: “Once Upon A Time in 2020”.
È una parte che nasce la scorsa estate, ero a Catania e mi trovavo davanti all’umanità composita dei frequentatori delle spiaggie, alle prese con mascherine e limitazioni, ma anche con le altre notizie di cronaca che tornavano ad affacciarsi alla quotidianità. C’è il tifoso di Maradona, il sostenitore di Trump, il culturista di colore. E con loro mascherine, soluzioni disinfettanti, termometri puntati alla tempia. E la foto forse più iconica, quella che fa da copertina alla mostra: l’uomo con la scottatura e il segno della mascherina in volto. Sono sedici foto, che ho immaginato come sedici cartoline di questo strano 2020.
Il risultato, come afferma, Nicolas Ballario – curatore di Once Upon A Time in 2020 – è quello di una disturbante normalità, che Spucches indaga attraverso l’obiettivo, allontandosi da quell’arte che cerca a tutti i costi l’eccentricità. Nel racconto che si percorre visitando la mostra ci si immerge in un atmosfera quasi epica: l’arte diventa una fiaba, la cronaca diventa leggenda. Con un pizzico di salvifica ironia. E noi ci ritroviamo immersi completamente nel racconto di Spucches, che è un po’ anche il nostro.
Ma ora che questo racconto sembra quasi giunto al termine, cosa fotografa Spucches?
Ora ho ripreso a lavorare su un progetto che avevo iniziato lo scorso anno e ho, giocoforza, abbandonato a febbraio, quando sono iniziate le limitazioni agli spostamenti. È un reportage sulla linea del filobus numero 90, che percorre la circonvallazione di Milano, in tondo e a ciclo continuo, h24. A seconda della fascia oraria, cambiano i passeggeri, cambiano le storie e cambiano i mondi che racconta.
E chissà che questo filobus che gira in tondo, che si riempie nuovamente dopo mesi in cui i passeggeri erano pochi, solitari e sparuti, non sia in qualche modo una metafora della vita che riprende il suo girotondo. Di sicuro sarà un’altra storia che varrà la pena di veder raccontata attraverso lo sguardo e l’obiettivo fotografico di Spucches.
La mostra Once Upon A Time è visitabile, ad ingresso gratuito, tutti i giorni dalle 8 alle 17, fino al 16 maggio. Presso lo spazio espositivo “Scalo Lambrate” in via Saccardo 12 a Milano.
Presso la mostra è acquistabile il volume “Working Class Virus”, edito da Il Randagio Edizioni, che raccoglie parte delle foto in mostra ed altre inedite; il ricavato della vendita sarà devoluto in beneficienza alla comunità delle Suore della mensa di Milano.
Simone Sciutteri