Dal 2000 al 2018, in Italia, almeno 480 bambini hanno perso la vita per mano di un familiare. Innumerevoli e impossibili da contare, invece, sono i casi di abusi su minori.
A rivelarlo è il “Rapporto sugli omicidi in famiglia“, redatto dall’Istituto di ricerche economico-sociali. Nella stragrande maggioranza dei casi, circa il 90%, a commettere l’infanticidio sono le stesse madri. Nel restante 10% dei casi, invece, è il padre a commettere il crimine in questione, spesso tramite dinamiche che prevedono anche l’omicidio della madre del bambino e, alcuni casi, persino il suicidio.
Quasi tutti gli omicidi in famiglia, registrati nel periodo preso in esame, riguardano bambini con meno di un anno di età. Un caso su cinque, inoltre, coinvolge bambini appena nati. Nel discorso pubblico, il più delle volte, i casi d’infanticidio attirano la morbosa attenzione mediatica e della popolazione. La folla s’indigna e urla alla barbarie insensata. Allo stesso modo reagiscono i politici e i giornalisti, con il risultato che, terminata l’indignazione, tutto ritorna alla normalità, senza alcun tentativo d’indagare le cause di simili gesti.
L’indignazione, infatti, sostenuta da accuse di pazzia e barbarie, ai danni del genitore assassino, fa parte di un meccanismo di difesa tutto umano che, però, c’impedisce di giungere alla radice del problema. Affermando che l’assassino è un pazzo, infatti, il popolo trova una qualche tranquillità. Se egli è un pazzo, allora, noi “normali” non corriamo il rischio di commettere simili gesti e, allo stesso modo, sapremmo prontamente. riconoscere, di sicuro, i segni di una simile follia in chi ci si para davanti.
Superato questo meccanismo difensivo; ovvero andando oltre l’avventato giudizio morale, si apre l’oceano degli interrogativi e dell’effettiva problematicità della questione.
Il fatto che la maggioranza degli omicidi in famiglia, ai danni dei bambini, siano commessi dalle madri, sottolinea fin da subito l’esistenza di una potenziale condizione problematica nel modo in cui, determinate donne, in determinati contesti, possono vivere la maternità. Contesti d’isolamento e solitudine a cui si associa, fin da subito, la mancanza di assistenza. Contesti psicologici caratterizzati da senso d’inadeguatezza o depressione post-parto che potrebbero essere gestite da medici e specialisti ma che spesso, a causa di una diffidenza ancora molto diffusa in Italia, ai danni della psicologia, vengono vissuti in completo segreto. E ancora. Contesti economici e sociali caratterizzati da povertà, mancanza d’istruzione, sfiducia nelle istituzioni e nelle possibilità di ottenere l’aiuto necessario.
Lo spettro delle problematiche che possono condurre all’omicidio di un figlio, come appena visto, è dunque vasto e quasi infinito. Ciò rende la prevenzione del fenomeno enormemente complicata. Ma la complessità nel trovare soluzioni accettabili non può essere una valida motivazione per non cercare risposte. Risposte che, al momento, non arrivano. Mentre il problema cresce sempre più. Nel 2018, ad esempio, si è registrato un aumento del 30% degli omicidi in famiglia ai danni dei minori. Un aumento drastico e spaventoso che rischia di ripetersi anche nel 2019.
Non sono solo i casi di omicidio ad aumentare.
Tra 2016 e 2017, ad esempio, sono aumentati anche i casi di abbandono (+21%) e di violenza sessuale (+18%). Mentre si stima che circa un 19% dei bambini, nell’arco dell’infanzia, assiste ad almeno un caso di violenza domestica, con ovvie e drastiche ricadute sulla psiche del giovane individuo.
Purtroppo la normativa italiana, per quanto riguarda i casi di violenza domestica e su minore, risulta spesso inefficace. Inefficacia notata e sottolineata dall’Onu stesso, che, a febbraio 2019, aveva chiesto allo Stato italiano di colmare le numerose lacune presenti nella legislazione anti abuso. Lacune che si fanno assolutamente evidenti e dannose per quanto riguarda la prevenzione del fenomeno. Ad oggi, infatti, non esiste quasi alcuna legge, concretamente utile, ai fini della prevenzione della violenza su minore. Con il risultato che, il più delle volte, si agisce solo quando è troppo tardi, ovvero, quando si scopre un cadavere.
In particolare l’Onu chiede all’Italia di lavorare ad una chiara classificazione delle tipologie di violenza e ad un costante monitoraggio dei casi di abuso. In secondo luogo diventa sempre più importante la formazione degli insegnanti, degli assistenti sociali e dei genitori stessi che, il più delle volte, stentano a riconoscere le situazioni critiche. Oltretutto, ad aggravare la situazione, si registra, in molti casi, anche una palese omertà da parte della scuola, degli istituti assistenziali e anche delle singole persone. Ciò vuol dire che anche quando gli abusi risultano evidenti,purtroppo, si evita di prendere l’iniziativa sporgendo denuncia.
Forse è vero, come dice il proverbio tutto italiano, che: “chi si fa i cazzi sua campa cent’anni“, a campare un po’ meno, però, è chi subisce la violenza in prima persona.
Andrea Pezzotta