Le luci delle Olimpiadi, al Maracanà, si sono spente da una settimana e per qualcuno il sogno olimpico si è ben presto trasformato nel peggiore degli incubi.
E’ quanto accaduto a Wesley Korir, maratoneta e politico keniano, e a buona parte della sua squadra. Al termine dei giochi, gli atleti sono stati piazzati in una favela per quattro giorni, nell’attesa di trovare un volo low cost che li riportasse a casa. Il Kenya team avrebbe riportato in patria un palmarès di tutto rispetto, con sei medaglie d’oro ottenute nell’atletica, certo di essere accolto tra onori e festeggiamenti. Era ciò che si aspettavano anche gli alti dirigenti del Comitato olimpico keniano, rientrati subito dopo la chiusura dei giochi in business class.
Ma – e per una volta almeno i social network assumono il ruolo di deus ex machina – proprio grazie a un tweet, corredato da foto, sul profilo di Korir si sono affievoliti gli entusiasmi. “Il dramma continua a Rio, questa è la nostra casa per stanotte…di notte sentiamo i colpi di pistola. #Rio2016 #voli low cost”. Anzi, il tweet di Korir ha decisamente stroncato la carriera dei dirigenti. Tra carcasse di vecchie auto, baracche e strade sterrate postate dall’atleta, il governo di Nairobi non poteva fare altro che licenziare in tronco i manager per aver mal gestito l’intera trasferta e la permanenza ai giochi di tutta la squadra, oltre che aver tradito il proprio popolo.
A quanto pare, le alte sfere del comitato olimpico keniano avrebbero ostacolato i controlli antidoping con le mazzette. Michael Rotich, team manager della squadra keniota, vendeva a caro prezzo il proprio silenzio, all’ombra del quale alcune stelle sportive proseguivano indisturbate nell’illecito. E se ci si limitasse a questo, forse, l’intera vicenda assumerebbe tinte meno sfocate. Un altro dirigente si è finto mezzofondista, giusto per ottenere l’accesso alla prima colazione gratuitamente. Le vicende più grottesche si sono verificate poi con il mancato supporto ai propri atleti, come evidente nella maratona vinta dal keniota Eliud Kipchoge che non ha trovato il proprio box per idratarsi, al fatidico km 30.
Proprio Kipchoge, assieme ad altri colleghi di squadra, è rientrato arrabbiatissimo in Kenya, pagando di tasca propria il volo e risparmiandosi il soggiorno in favela. Era ovvio che per protesta non partecipasse ai festeggiamenti. Tra mazzette e menefreghismo, poi, si è insinuato pure il vezzo di “fare la cresta” sui gadget che la Nike aveva donato agli atleti. A loro non ne è toccato neanche uno, venduti tutti!
Eppure “non abbiamo fatto niente di sbagliato, solo il Cio può chiederci di farci da parte, questa è interferenza politica”, chiosa il segretario generale Paul Francis dalle pagine di Repubblica.it. Intanto due giorni fa, in quel di Nairobi, fioccavano gli arresti. Il vice-segretario generale dell’organizzazione, James Chacha, ed il capodelegazione a Rio, Stephen Arp mentre ieri è stato il turno dello stesso Francis. Una volta c’erano i giochi olimpici, quelli veri. Fatti di solo sport e per cui si fermavano anche le guerre. Oggi si arricchiscono di inedite e tristi discipline.
Alessandra Maria