Old Times di Harold Pinter, urlando il non detto

Di Adriano Ercolani


C’è una delle più celebri, ipnotiche e sibilline canzoni di Leonard Cohen, Famous Blue Raincoat, in cui il protagonista scrive una struggente lettera, sospesa tra accusa e confessione, al suo migliore amico, rivale in amore, memorabile figura di fascinoso dongiovanni in decadenza, in una magistrale proiezione poetica; al termine della canzone l’ascoltatore ha l’impressione che ciascuna delle figure del triangolo amoroso rappresenti una proiezione dei diversi aspetti della personalità dell’autore.




Situazione completamente capovolta Old Times, opera teatrale di Harold Pinter del 1970, in scena a Roma al Teatro dei Conciatori fino al 14 Maggio, per l’accorta regia di Michael Rodgers.

L’assunto della riflessione è riassumibile nella sentenza: “Il passato è ciò che tu ricordi, che immagini di ricordare, che ti convinci di ricordare, oppure fingi di ricordare.”.

La quiete di una tranquilla coppia sposata felicemente da vent’anni viene sconvolta da una visita improvvisa: Anna, antica migliore amica della moglie (la timida e sognatrice Kate), si presenta a cena, rievocando con la sua sensuale vivacità la magia dei spensierati anni giovanili, destando le prevedibili gelosie del marito, Deeley.

Fin qui, apparentemente, tutto molto banale.

Ma l’intelligenza di Pinter è quella di portare alle estreme conseguenze questa classica dinamica psicologica del teatro borghese: tutti gli spunti di sciatta quotidianità, i ricordi più comuni e le trasgressioni più ingenue torneranno circolarmente nella messa in scena in un crescendo di confessioni urlate e capovolgimenti spiazzanti.

Anna diviene ospite benvenuta, oggetto del desiderio, ideale vagheggiato, presenza ingombrante, spettro inquietante, specchio ingannevole di memorie ricreate nella luce del rimpianto e nel silenzio del rimosso.

Un gioco di inversione di ruoli e scambio di personalità che ritroveremo portato ai massimi vertici di delirio e fascinazione nel cinema di David Lynch.

Come in tutta l’opera di Pinter, riconoscibile è l’influenza del maestro e amico Samuel Beckett, ma in questo caso affiorano dei chiari riferimenti pirandelliani: difficile non accostare la protagonista, contesa nel gioco di ricordi incrociati, alla Signora Frola di Cosi è, se vi pare.

La messa in scena è convincente, divisa in due tempi: nel primo la recitazione appare stucchevolmente stereotipata, ma presto si intuisce come esso sia una precisa scelta registica per mostrare il progressivo scivolamento nell’abisso interiore dei protagonisti.

Così lo scattoso e spaccone Deeley (Marco S. Bellocchio) diviene nel finale fragile e tremante, la sensuale e frivola Anna (Lisa Vampa) lentamente si trasforma in una maschera di glaciale contrizione, l’introversa e sottomessa Kate (Christine Reinhold) si erge nel suo dolente carisma femminile.

Il gioco di tensione, affidato prima al non detto e poi all’incrocio di accuse e ricordi mescolati, è condotto con discrezione dal terzetto di attori, fino al finale decisamente suggestivo, in cui le differenti versioni del passato si fondono nell’ambiguità onirica di un presente svanente.

La motivazione del Premio Nobel conferito all’autore nel 2005 recita testualmente: “Pinter rivela il baratro che si nasconde sotto le chiacchiere di tutti i giorni e si fa strada nelle stanze più segrete dell’oppressione”.

In questo senso, lo spettacolo sa rendere giustizia al compianto drammaturgo londinese.

 

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