Negli ultimi giorni un vento forte e limpido ha spazzato il cielo, sferzando anche le mie finestre. Forse per questo mi è tornata in mente una poesia che ho amato da liceale, l’Ode al vento occidentale del poeta inglese Percy Bysshe Shelley. Si tratta di una lirica dedicata a un vento indomito, che porta con sé tempi difficili. Nonché di versi attualissimi, che covano una scintilla di speranza.
Pubblicata nel 1820, l’Ode al vento occidentale fu composta nel 1819 nel Parco delle Cascine di Firenze. Come ricorda Shelley, egli la concepì
in un giorno di vento agitato, tiepido e fresco insieme. Quel vento raccoglieva i vapori che avrebbero fatto poi scrosciare le foglie autunnali.
Per celebrare la potenza del vento di Ponente, il poeta scelse una forma nobile per tradizione e, con essa, uno stile ed un registro elevati. Così, nell’immaginario di un romantico assetato di libertà si trovavano a dialogare John Dryden, Orazio e Pindaro, maestri di questa forma. Non solo. I settanta versi, suddivisi in cinque stanze di pentametri giambici, presentano – escluso il distico finale in rima baciata – terzine a rima incatenata (ABA, BCB, …). Attraverso questo schema Shelley rendeva il proprio omaggio alla Commedia di Dante, nella città del quale il poeta in quel periodo soggiornava.
Sono trascorsi duecento anni esatti dalla sua pubblicazione, eppure questa lirica ha ancora moltissimo da offrirci. Perché dovremmo rileggerla proprio durante quest’interminabile quarantena?
Anzitutto, per la ricchezza conturbante delle sue immagini. Nelle prime tre strofe, in particolare, Shelley evoca gli effetti del vento occidentale quando perturba la terra, il cielo e il mare. Con una sintassi volutamente disordinata, con un accumulo di istantanee, il poeta non si limita a descrivere l’azione del vento. La dipinge, in modo quasi impressionistico, lasciando attraversare le parole dal soffio di quello “spirito selvaggio” che è “distruttore e preservatore” insieme. Così, folata dopo folata, sono morte e vita ad inseguirsi. Perché il vento di Ponente atterrisce la natura, la sconvolge strappando via ciò che non è più vivo. Ma soltanto per lasciare spazio, dopo l’inverno, alla vita che verrà.
Una prima ragione per rileggere oggi l’Ode al vento occidentale, dunque, è questa. La lirica spalanca come un colpo di vento le finestre della nostra necessaria reclusione. E sulle ali delle sue correnti ci porta in spazi aperti, a contemplare lo spettacolo sublime della natura e dei suoi cicli. Eppure, non si tratta solo di questo. La poesia di Shelley riesce anche a spalancare una finestra nella nostra interiorità. Come?
Tutta l’ode non è che una lunga invocazione al vento di Ponente, la preghiera di un devoto a una forza che lo trascende. Che cosa chiede Shelley? Chiede una comunione assoluta con la potenza di questo elemento naturale:
Che tu sia dunque il mio spirito, o Spirito fiero!
Spirito impetuoso, che tu sia me stesso!
Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo
come foglie appassite per darmi una nascita nuova!
Chiede, cioè, di poter essere attraversato e rinnovato da una forza vitale pura e dirompente come quella del fenomeno cui assiste.
Il poeta, però, non intende godere da solo di questo rinnovamento, di questa intima unione con l’elemento naturale.
Una ben precisa richiesta, infatti, inaugura la quinta e ultima strofa dell’ode:
Fa’ di me la tua cetra, com’è della foresta.
Più avanti nella stessa strofa la richiesta si precisa così:
E con l’incanto di questi miei versi disperdi
come da un focolare non ancora spento,
le faville e le ceneri, le mie parole fra gli uomini!
Al vento di Ponente, cioè, Shelley chiede di dare forza alla sua voce affinché possa risuonare per tutti gli uomini. Ciò che intende esprimere, insieme alla straordinaria forza e bellezza del vento occidentale, è qualcosa che oggi ci risulta più prezioso che mai. È un insegnamento, un sapere che il poeta ha tratto a caro prezzo da una vita tumultuosa, affidato in forma di domanda all’ultimo verso dell’ode:
se arriva l’Inverno, potrà la Primavera esser così lontana?
Ecco, in questo verso è racchiusa tutta la straordinaria attualità della lirica: nello sconvolgimento, essa ci invita a sperare tenacemente.
Nei suoi versi Shelley ci spinge a distogliere lo sguardo dall’angoscia e dal tedio che proviamo e a contemplare lo spettacolo della natura. Non si tratta di semplice piacere estetico, né di un’evasione. Si tratta di ricordare che la difficoltà e il rovescio di fortuna non sono per sempre. In noi stessi, nell’arte, nella cultura, nelle relazioni e nella bellezza del mondo possiamo trovare un incentivo per farvi fronte.
Oggi che viviamo una strana primavera, più simile a un inverno per i nostri affetti e le nostre attività, è fondamentale ricordarlo. Perché no, la nostra primavera non può davvero essere così lontana.
Valeria Meazza