L’obbedienza è una virtù? Tra Don Milani, Socrate e Antigone

L’obbedienza è una virtù se e solo se l’obbedire è frutto di una scelta consapevole, esercitata da individui che padroneggino la capacità di essere liberi. Ma come si arriva a padroneggiarla? La risposta non deve sorprendere: attraverso l’educazione. Nonché dialogando con quanto di meglio ha da offrire la nostra cultura.

«Usi obbedir tacendo e tacendo morir». In questa frase, motto dell’Arma dei Carabinieri, m’imbatto spesso. Essa, infatti, è scritta a grandi lettere scure su un monumento commemorativo che si trova in un piccolo parco vicino a casa mia. Ho grande rispetto per la Benemerita, eppure ci sono momenti in cui quel silenzio insistito accanto all’obbedienza mi mette a disagio. Forse perché quelle parole mi rievocano una riflessione dello scienziato e romanziere inglese Charles Percy Snow:

Quando pensi alla lunga e tenebrosa storia dell’uomo, troverai che molti crimini spaventosi sono stati commessi nel nome dell’obbedienza. Molti di più di quanti ne siano mai stati commessi in nome della ribellione.

Mi viene da chiedermi, ogni volta, se e fino a che punto l’obbedienza sia davvero una virtù.

Don Lorenzo Milani nato il 27 maggio del 1923, con i suoi ragazzi di Sant’Andrea a Barbiana, si era già posto questo problema nel 1965.

Lo aveva affrontato in una famosa lettera ai cappellani militari che avevano definito “vili” gli obiettori di coscienza e  “anticristiani” i loro principi. Prendere fermamente posizione in difesa degli obiettori al sacerdote sarebbe costato un processo per apologia di reato protrattosi fino alla sua morte. Don Milani sarebbe potuto restare in silenzio, risparmiandosi la querela e il biasimo di gran parte dell’opinione pubblica. Vi si sentì tenuto, però, in quanto cristiano e, soprattutto, in quanto maestro. Perché, credeva, il Paese, ancora intossicato da retoriche fasciste quali il “credere, obbedire, combattere”, sarebbe diventato davvero libero, civile e democratico solo a patto di

avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani. Per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né a Dio. Che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.

«C’è un’obbedienza che non è virtù» scriveva Don Milani in una lettera indirizzata ai giudici non potendo presenziare al processo a causa della sua malattia: «servitù è il suo nome».

E proseguiva:

A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire. Perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama “legge di Dio”, l’altra parte la chiama “legge della coscienza”. Quelli che non credono né all’una né all’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca.

L’obbedienza cieca, secondo Don Milani, non è il frutto virtuoso dell’abnegazione e di una rigorosa disciplina imposta a sé stessi. È una malattia morale, contro la quale in particolar modo i cittadini del futuro devono immunizzarsi. Come? Attraverso un’incessante educazione alla libertà, che è responsabilità tanto degli educatori quanto, man mano che si cresce, dell’individuo verso sé stesso.

Ma se, come ha scritto molti anni più tardi Gherardo Colombo, «la questione dell’educazione è la differenza tra l’educazione all’obbedienza e l’educazione alla libertà», come ci si educa a essere liberi?

Un’utile indicazione si può trovare in una lettera di Don Milani ad Adolfo Gatti, suo difensore d’ufficio al processo:

Da diciotto anni, io non ho più letto un libro o un giornale se non ad alta voce con dei piccoli uditori. Nella chiesuola dell’élite intellettuale tutti hanno letto tutto. E quel che non hanno letto, fingono d’averlo letto. Barbiana è un’altra cosa, una poverissima scuola di montagna. Dove si legge poco, si scrive poco, ma quel poco è tanto meditato che alla fine fa impressione perfino agli intellettuali di professione.

Alla libertà ci si educa con la riflessione condivisa su tematiche di interesse collettivo fondata su quanto di meglio la propria cultura ha da offrire. Ossia – tra le altre cose – leggendo e problematizzando i classici. Non per nutrire un senso di superiorità rispetto a chi li ignora, come fanno gli eruditi, bensì per farne lettera viva: una guida per il presente. E per il futuro.

Ora, se affrontiamo il problema della scelta di obbedire, due figure del mondo antico s’impongono con particolare forza al nostro presente: Socrate e Antigone.

Radicalmente diversi e inevitabilmente simili, Antigone e Socrate, come rileva la filosofa Roberta De Monticelli,

incarnano i modi dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressioni della libertà.

Socrate, infatti, rifiutando di eludere l’esecuzione della condanna a morte per non minare la credibilità delle leggi ateniesi, ci educa all’impegno verso le istituzioni. Poiché proprio queste ci rendono possibile diventare quelli che siamo, egli puntualizza, è nostro dovere rispettarle. Obbedendo a ciò che ordinano e provando attivamente a cambiare ciò che ripugna alla coscienza, se necessario facendosi monito e pagando il prezzo più alto. Antigone, d’altro canto, ci ricorda come non sia vita quella che assume la forma di una prigionia della mente e di una servitù del cuore. E che in un sistema che nega libertà e dignità a qualsivoglia essere umano il dissenso non è un’opzione. È un dovere morale che può spingersi fino all’aperta ribellione.

Durante le fasi più drammatiche dell’epidemia di Covid-19, l’obbligo di restare nelle proprie case o di indossare la mascherina ha suscitato diverse reazioni negli Italiani. Evidenziando quanto gravemente, non di rado, la libertà venga confusa con l’arbitrio.

Occorre urgentemente tornare a riflettere su termini come “obbedienza” e “ribellione“. E, nel farlo, forse dovremmo insegnare (e, prima ancora, imparare) ad obbedire come Socrate e disobbedire come Antigone. Agendo, cioè, né per automatismo né per capriccio, ma rapportandoci alla nostra coscienza e al mondo circostante con spirito critico ben desto. Perché la libertà non è assenza di regole e conseguenze. E l’obbedienza è, sì, una virtù, ma soltanto nel momento in cui è frutto di una scelta consapevole. Quel tipo di scelta, cioè, che può scaturire solo dalla percezione della propria libertà. Dall’essersi lungamente esercitati a essere liberi.

Valeria Meazza

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