Un gruppo di ricercatori ungheresi ha scoperto un nuovo tipo di neurone: un fascio denso e cespuglioso che è presente nelle persone ma sembra mancare nei topi. Questi “neuroni di rosa canina” sono stati trovati nello strato più alto della corteccia. Tale strato ospita molti diversi tipi di neuroni che inibiscono l’attività di altri neuroni.
Gli scienziati hanno individuato i neuroni in fette di tessuto cerebrale umano come parte di un più ampio “inventario” di cellule cerebrali umane. Per far ciò, essi hanno combinato lo studio microscopico dell’anatomia cerebrale e l’analisi genetica delle singole cellule. Le cellule erano piccole e compatte, con una forma densa e cespugliosa. Lungo le proiezioni in cui trasmettono segnali ad altre cellule, gli assoni, hanno strutture insolitamente grandi, a bulbo, che ne hanno ispirato il nome.
Il neurone del mistero
Per classificare precisamente queste cellule, gli scienziati hanno poi analizzato la loro espressione genica. In quel momento si sono resi conto che l’insieme dei geni espressi in questi neuroni inibitori non corrisponde a nessuna cellula identificata nel topo. Ciò suggerisce che essi non hanno un analogo nel roditore, spesso usato come modello per l’uomo. La scoperta solleva anche la questione se questi neuroni siano la chiave per certe funzioni cerebrali che ci separano dai topi.
Ma la funzione esatta di questi nuovi neuroni è ancora qualcosa di misterioso. I neuroni della rosa canina sembrano costituire solo dal 10% al 15% dei neuroni inibitori nel primo strato della corteccia e sono probabilmente ancora più scarsi altrove. Le posizioni dei loro punti di contatto su altri neuroni suggeriscono che sono in una posizione privilegiata per mettere i freni su altri segnali eccitatori. Da cui complessi circuiti di neuroni si attivano l’un l’altro nel cervello. I ricercatori ora progettano di studiare come i neuroni di rosa canina sono organizzati in questi circuiti più grandi e di esplorare se la loro disfunzione potrebbe avere un ruolo nelle malattie neuropsichiatriche.
La ricerca è stata pubblicata su Nature.
Roberto Bovolenta