Nuovi tentati suicidi e atti di autolesionismo al CPR di via Corelli a Milano

Nuovi tentati suicidi e atti di autolesionismo tra i detenuti del Cpr di via Corelli a Milano.

Nella la giornata di venerdì 17 maggio e nei giorni appena successivi presso il Centro per il Rimpatrio di via Corelli a Milano si sono verificati altri tragici tentati suicidi e atti di autolesionismo, tutti nell’arco di pochissime ore. Le immagini scioccati sono state pubblicate sui social network dalla rete “Mai più Lager – NO ai Cpr”.  In uno dei video condivisi si possono vedere 4 ragazzi impegnati nel tentativo di slegare una quinta persona appesa alle sbarre del cortile del centro con una corda probabilmente ricavata da una felpa. 

Un uomo che dovrebbe essere rimpatriato in Tunisia si è invece inferto un profondo taglio alla gola a distanza di un’ora.

Atti di autolesionismo tra i migranti irregolari detenuti nei CPR

Gli atti di autolesionismo tra i detenuti nei CPR italiani sono diventati un fenomeno ricorrente. Molte delle notizie sui fatti che accadono all’interno di questi centri hanno difficoltà a venire alla luce e hanno spesso una diffusione limitata anche a causa del fatto che ai detenuti è negato qualsiasi contatto con l’esterno. A tutti viene infatti ritirato il telefono nel momento dell’ingresso e solo all’interno del CPR milanese di via Corelli è permesso tenere un cellulare. 

Le scarse condizioni igieniche all’interno dei centri e le mancate cure mediche documentate, sono tra le ragioni per cui a volte i detenuti praticano atti di autolesionismo, unico modo per essere trasferiti in pronto soccorso o in ospedali pubblici per ricevere cure mediche adeguate. 

L’essere ricoverati per lesioni gravi può inoltre portare ad essere ritenuti come non in grado di viaggiare e l’autolesionismo diventa così un modo per rallentare il processo di rimpatrio.

L’uomo che venerdì 17 maggio si è inflitto un taglio alla gola dovrebbe infatti essere rimpatriato in Tunisia ma in Italia ha una compagna incinta che a breve dovrebbe partorire. La nascita di un figlio potrebbe essere di per sé una motivazione per ottenere un permesso di soggiorno temporaneo ma, a causa della sua detenzione, l’uomo si trova nella condizione di non poter chiedere questo permesso, di non poter assistere la compagna o di poter riconoscere il figlio. 

Poco dopo aver ricevuto le cure necessarie per suturare il taglio, l’uomo si è strappato i punti di sutura alla gola per poi approfondire la ferita ancora fresca. Tutti questi atti diventano segni di protesta per il destino riservato ai detenuti nei CPR, in questo caso una richiesta disperata da parte dell’uomo di non essere rimpatriato in Tunisia. Al rientro dall’ospedale dopo la prima ferita infertasi, alcuni compagni di cella hanno segnalato al centralino del NAGA che l’uomo era rientrato “così gonfio di psicofarmaci che a cena è caduto con la faccia nella pasta”. Gli psicofarmaci sono usati anche all’interno dei centri prescritti in dosi massicce, con l’obiettivo di sedare le persone rinchiuse. 

L’incertezza e la violazione dei diritti umani all’interno dei CPR

L’ingresso in uno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio può avvenire dopo un controllo dei documenti in strada delle persone irregolari o in seguito alla scadenza del permesso di soggiorno. Possono essere rinchiuse anche solo per aver manifestato la volontà di voler chiedere asilo dopo l’arrivo in Italia: chi infatti proviene da un Paese considerato dall’Italia “sicuro” può non essere ritenuto idoneo per l’ottenimento dell’asilo. La lista dei Paesi sicuri è stata tra l’altro recentemente ampliata, arrivando a includere Paesi come la Colombia, l’Egitto e il Bangladesh. Nell’elenco erano già presenti paesi come l’Algeria, la Nigeria o la Tunisia, paese in cui in particolare nell’ultimo periodo avviene una sistematica violazione dei diritti dei migranti, con violenze perpetuate dalla polizia e deportazioni di massa.

Ciò che caratterizza i CPR è la mancanza di adeguate informazioni fornite ai migranti irregolari circa la loro situazione e il loro destino. Di fatto, chiunque venga rinchiuso in un CPR si trova a dover sopravvivere in un regime carcerario ma senza le tutele previste dall’ordinamento penitenziario. Non a caso Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, definisce i Centri di Permanenza per il Rimpatrio come aree grigie del diritto e sostiene che “la questione dell’impermeabilità di questi luoghi rispetto al mondo esterno è fra gli elementi più problematici che li caratterizza”. 

Le conseguenze degli avvenimenti degli ultimi giorni al Centro per il Rimpatrio di via Corelli

Proprio a causa dell’impermeabilità di questi centri, poco si è saputo anche di ciò che è successo in seguito ai drammatici fatti di venerdì 17 maggio. Sempre la rete “NO ai Cpr” ha infatti raccontato che, in seguito a un giorno di sciopero della fame da parte dei detenuti del centro come protesta contro i soprusi subiti, nella notte tra lunedì e martedì, in uno dei settori del CPR di via Corelli, si è verificata un’escalation della tensione e i migranti richiusi hanno sfogato la propria rabbia, la propria paura contro le celle del CPR, danneggiando parte della struttura. Immediato è stato l’intervento di numerosi agenti della Guardia di Finanza in tenuta anti sommossa che hanno spinto i ragazzi scalzi nel cortile interno sotto la pioggia battente.

Le segnalazioni al centralino NAGA e il suggerimento di quest’ultimo di registrare video hanno permesso di far rientrare la situazione senza un’ulteriore uso della violenza. Ciò che però è chiaro è che il CPR di via Corelli, come tutti gli altri sparsi sul territorio nazionale, sono luoghi di sistematica violazione dei diritti umani, dove è difficile accedere a un supporto legale anche quando dovrebbe essere garantito. Un luogo che porta a un senso di smarrimento e disperazione che inevitabilmente si traduce in azioni come quelle accadute negli ultimi giorni.

In ambienti come quelli dei CPR, dove le storie individuali scompaiono e la permanenza si traduce in un tempo di attesa indefinito per un destino incerto, spesso l’unico strumento che hai per affermarti è quello del tuo corpo. Con scarsa assistenza legale, senza possibilità di importi su ciò che accadrà, gli atti di autolesionismo diventano un modo per protestare contro le condizioni disumane di questi luoghi, ma anche un modo per imporsi sul flusso degli eventi, come nel caso dell’uomo tunisino.

In seguito agli accaduti, Teresa Florio della rete Mai più Lager – NO ai CPR” ha commentato ai microfoni di Radio Onda d’Urto:

«Noi cerchiamo di documentare ciò che è violenza di Stato, perché non si tratta più neanche di autolesionismo. È una situazione tale da diventare in sostanza tortura perché se tutti sono messi nella situazione di provocarsi autolesionismo non è più soltanto autolesionismo».

Arianna Locatelli

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