Probabilmente i lettori si annoierebbero a morte, se ricordassimo per la ventordicesima volta Il nome della rosa e la sua cruciale disputa sulla liceità di ridere. Scherzo e buffoneria sono deformità? O facoltà tipicamente umane, che veicolano l’intelligenza e fanno dire di sì alla vita?
Ridere è una cosa seria. Tanto che, in suo onore, si è scomodato un esimio professore: Nuccio Ordine, ordinario di Letteratura italiana all’Università della Calabria. Suo è: Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento (Napoli 2009, Liguori Editore).
“Il riso ha un bel daffare per mantenere le sue virtù filosofiche. Disturba quanto gli Ignudi di Michelangelo. Si teme la sua forza corrosiva. […] Per far bene l’uomo, come dice Montaigne, bisogna saper ridere. Nuccio Ordine racconta che durante la rivolta studentesca del 1977 in Italia, gli ‘indiani metropolitani’ proclamavano: «Una risata vi seppellirà». […] ‘Sia ammazzato il Signor Padre’, dicevano ai genitori, secondo Goethe, i bambini durante il carnevale di Roma. […] Uccidere il padre […] significa anzitutto trovare la propria strada.” (Prefazione di Daniel Ménager, p. XIII. Traduzione di Anna Chiara Peduzzi).
La questione è antica. Ordine parte da Platone e dal suo Filebo. La digressione sul comico (47d-50e) dà un esempio della possibile mescolanza fra piacere e dolore. Secondo il personaggio di Socrate, il ridicolo sarebbe scatenato dal non conoscere se stessi, dal credersi il contrario di ciò che si è. La “mescolanza” avviene quando gli oggetti del riso sono gli amici: in questo caso, il piacere viene da un’emozione negativa come il gusto immotivato per il male altrui. Nella Repubblica, Platone condanna il riso, in quanto foriero di rivoluzioni (III, 388e).
Viene poi la Poetica di Aristotele, testo rievocato anche nel suddetto Nome della rosa. Non esiste prova che il filosofo abbia davvero dedicato un II libro al genere comico. Però, il cap. 5 definisce lo spazio sociale trattato dalla commedia: gli strati più bassi della popolazione. Oltre a questo, la rappresentazione comica deve avere un’altra caratteristica: rappresentare una bruttezza che non causa dolore.
Non parliamo poi dell’importanza del riso nell’arte retorica. Cicerone e Quintiliano gli dedicarono pagine volte a stabilire se e quanto il motto di spirito fosse utile per conciliarsi l’uditorio. Conclusione: la “battuta” fa piacere al pubblico, smonta l’avversario e mostra la finezza di spirito dell’oratore. Ma va usata con prudenza, perché tocca meccanismi irrazionali complessi e sfuggenti.
Un’intera opera filosofica costruita sull’ironia è il celebre Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.
“Il rigido spazio tra verità e apparenza, tra sapienza ed ignoranza viene travolto alla furia distruttrice del riso: la realtà coincide con un teatro del mondo carico di contraddizioni, dove la vera pazzia consiste nella ostinata ricerca e affermazione di un unico punto di vista assoluto, teso ad annullare la necessaria contaminazione dialettica dei contrari.” (p. 23)
Anche l’aneddoto su Talete deriso da una donna tracia per la propria distrazione, o lo Zarathustra di Nietzsche confermano il significato del riso filosofico: la provvisorietà del sapere in un mondo ambiguo, dove la minaccia dell’errore è continua.
Al tema del riso, si ricollega quello della novella, genere particolarmente popolare tra Duecento e Seicento. Essa ha le seguenti caratteristiche: brevità, piacevolezza, linearità, assenza di intenti moralizzanti o allegorici. Ha radici medievali nel racconto orale e nell’attività dei giullari. La sua funzione è intrattenere il pubblico. Il Decameron di Boccaccio, pilastro del genere novellistico, sottolinea una caratteristica di non poco conto: la gradevolezza della novella è una forma di resistenza contro l’orrore e la morte.
In merito, Ordine cita anche tre facezie di P. Bracciolini (CXI, CXII, XXIV), alle pp. 44-46. Il loro filo conduttore è il ruolo dell’eros come medicina del corpo e della psiche. Il racconto, il piacere e il riso sono così uniti nella comune funzione di ristabilire la vitalità.
Di tutto questo si è occupata anche una famosa psicanalista: Clarissa Pinkola Estés, nel suo classico Donne che corrono coi lupi (1992). Il cap. 11 è dedicato alle “Dee sporcaccione”, personificazioni dell’energia sessuale. Nel mito di Demetra, Baubo (detta anche Iambe) è una divinità tutta ventre, capezzoli e vagina. Solo lei è in grado di far ridere la dea delle messi e far tornare così la vita sulla terra.
“Talvolta è difficile allontanare gli uomini, affinché le donne possano restare da sole. […] L’energia maschile è bella, addirittura sontuosa, grandiosa. Ma talvolta è come mangiare troppi cioccolatini. […] Inoltre, la piccola Dea panciuta Baubo ci offre l’interessante idea che un po’ di oscenità aiuta a vincere la depressione. […] quelle storie rimescolano la libidine. Riattizzano il fuoco dell’interesse per la vita.” (p. 367)
Insomma, chi parla di “carnevalata” per denigrare il comportamento altrui dovrebbe stare attento. Potrebbe trovarsi a combattere contro forze più grandi di lui – contro l’amore stesso per la vita.
Erica Gazzoldi