Cara nonna,
ti scrivo questa lettera, perchè le mani mi prudono, la mente sfugge al mo controllo, lo stomaco si gonfia d’odio, come un palloncino, privo di presa d’aria.
Non mi piace andare a letto corrosa dall’angoscia, forse questo te lo ricorderai. O forse no. In fondo, durante le ultime settimane di convivenza, mica te li ricordavi quegli occhietti vispi, piccolini ed allungati, con quelle ciglia lunghissime, che ho preso da te. Mica le osservavi le mie pupille color miele, appartenenti a quella ragazzina irriverente si, antipatica, selvatica, ma desiderosa d’amore.
Ti scrivo questa lettera, cara nonna, perchè sono passati più di cieci anni, ma io ho ancora qualcosa da dirti.
Voglio dirti che all’inizio non lo sapevo, non ne avevo idea. Non potevo realizzare ciò che mi succedeva attorno, nessuno poteva farlo; Papà forse si, ma era troppo orgoglioso per ammettere quella debolezza naturale, quella mancanza cerebrale, quella verità troppo amara, che doleva come una pugnalata nel petto.
Ricordo ancora quel giorno in cui mi recai a casa vostra, tua e del nonno, con il mio orsacchiotto, pronta per trascorrere la mia prima, (e purtroppo anche ultima), notte dai nonni. Potrà sembrare banale, ma per me era tutto nuovo, emozionante, da accogliere nel mio cuoricino con infinita gioia fanciullesca.
No, non siamo mai stati una famiglia normale, ma a me piaceva anche così.
Gli occhietti color miele brillavano di luce propria, questo è certo, e non aspettavano altro che incrociare quelle pupille adulte, nelle quali intravedevano il dolce profumo di casa.
Ma lo sguardo che mi arrivava, che mi penetrava dentro, era assente, vuoto, quasi coperto da quelle folte ciglia, chiaro marchio di famiglia, che si adibivano a coperta.
Non avevo neanche 15 anni, nonna, ero una ragazzina irriverente, ribelle, che si fingeva anticonformista; mi tingevo i capelli del colore della pece, pur di farmi notare da te, da quegli occhi, specchio dell’anima, che assomigliavano troppo ai miei. Ancora non sapevo. Non potevo sapere.
Non potevo immaginare cosa stava succedendo nel tuo sistema nervoso.
Non comprendevo gli svariati cambiamenti strutturali e funzionali, che avvengono nel nostro corpo, macchina perfetta, a causa dell’invecchiamento.
Dinnanzi a me vedevo una donna anziana, con i miei occhi, e i miei capelli, che all’umidità si arruffavano, mostrando delle ondine deliziose.Udivo una donna ormai vecchia, stanca, stremata, che non riposava bene la notte, e spesso si abbandonava a pianti disperati, che sembravano non finire mai.
Mi dispiace, nonna, non esserti stata accanto durante quei momenti di estremo sconforto, potevo tenderti una mano, ed aiutarti a risalire. Ma forse non sarebbe bastato.
Io sono cresciuta, degna figlia di mio padre, orgogliosa come non mai, e anche se delle volte ero esausta, avevo raggiunto il limite delle mie forze, esasperata per tutte quelle cose non dette, quei silenzi assordanti, quelle verità celate, quel muro di gomma che mi si materializzava davanti, ogni qualvolta tentassi maldestramente di chiedere, nonna, cosa ti stesse succedendo; io restavo impassibile.
I sistemi sensoriali di una persona anziana, in particolar modo l’equilibrio, la vista, l’udito, l’odorato ed il gusto, perdono sensibilità, con il passare del tempo.
Ti odio, ti odio per quello che non hai fatto, ti odio per avermi tenuto all’oscuro di tutto.
Gli indottrinamenti famigliari, si sa, quando si ha un padre medico, vanno imparati a memoria.
Demenza senile. Per alcuni soggetti, per ragioni ancora sconosciute, si instaura una degenerazione progressiva del sistema nervoso centrale, tale da rendere l’individuo non più autosufficiente. Tra le alterazioni degenerative si annoverano la perdita di memoria, l’amnesia anterograda, e i disturbi emozionali che, raggruppati insieme caratterizzano proprio la senilità.
Ma non era tutto qua.
Non ti odio perchè convogliavi le attenzioni sulla tua persona, seppur bellissima; ma perchè non mi guardavi più con gli occhi di prima.
A quel tempo, nonna, non avevo neanche 15 anni, ero terribilmente orgogliosa, ma bramavo con tutte le fibre del mio corpo, un briciolo di quell’attenzione famigliare, che si sgretolava, giorno dopo giorno, al mio sguardo; non restava altro che polvere sul davanzale.
Io non concedevo nulla a me stessa, che potesse mostrare una debolezza, che credevo non appartenermi.
Adesso me la concedo, cara nonna, e so che potresti essere fiera di me. Mi concedo la licenza di sfogarmi, per recuperare il contatto con me stessa, e ogni volta, comprendo i miei limiti e le mie capacità.
Questo, forse, volevi insegnarmi.
Piango, mi sciolgo in calde lacrime liquide, che sgorgano come pioggia dal cuore, e bagnano le mie gote. Mi abbandono allo sconforto, ricordando le tue pupille color miele, quasi totalmente serrate dalle folte ciglia, fissarmi, come se fossi un’estranea.
Mi manca il dialogo che non abbiamo mai avuto. E ti odio, perchè hai smesso di guardarmi troppo presto.
“Tu non mi vuoi più bene”. Questo pensavo, e ti sussurravo dolcemente, quando facevi appello a tutte le tue forze, e, nonostante la tua gracile corporatura, riuscivi ad afferrare con incredibile prepotenza qualunque cosa, pur di picchiarmi. Una violenza inaudita, una furia che non rappresentava la tua persona. E io, le tue pupille color miele, neanche le guardavo più.
La malattia prendeva il sopravvento, possedendoti; non eri più tu, la mia nonna dallo sguardo penetrante e le ciglia folte, ma l’Alzheimer. Un termine medico, freddo, ostico, una demenza degenerativa, che sarebbe presto diventata invalidante, portandoti via da me.
Ti odio, perchè uscivo di casa con le amiche, gettandomi alle spalle la guerra che si combatteva in famiglia, nascondendo lividi evidenti, e un vuoto nel cuore.
Ti odio perchè una maledetta malattia ti ha portata via troppo presto; prima che potessi conoscerti davvero, e troppo tardi, perchè io potessi immortalare nella mia mente, l’immagine delle tue pupille color miele, per poi riviverle nelle mie.
Odio te, odio la genetica, odio quel maledetto buio che si materializzava nella tua mente, cancellando ogni ricordo, con un colpo di spugna. Tutto colpa dell’Alzheimer.
Tutta colpa di quell’incredibile malattia tanto diffusa, per la quale si contano circa ottomila casi, se contiamo anche le demenze, che trascinano dietro di se, una scia infinita di estremo dolore.
La patologia ha un fortissimo impatto, come già accennato, in quanto si stima che crica 2 milioni di persone, appartenenti alla fascia di età che va dai 65 agli 85, ne sia affetta, ed è causa di morte per circa 100mila pazienti ogni anno.
Ognuno ha la sua storia, ognuno ha il suo dolore. Ognuno ha il suo piccolo vuoto dentro, quel buio, che vedevo nelle tue pupille color miele, quando si rivolgevano alle mie.
E io, ora, delle volte proprio non ho scelta. Piango, perchè non posso portare il mondo sulle mie spalle, non posso guarire la Terra, non posso curare le malattie, così come non ho saputo tenere tra le mie braccia te, nonna. E forse, eral’unica cosa che realmente contava.
Da quando non ci sei più ho scoperto che piangere è una cura, le mie lacrime sono uno sfogo, che spesso sfocia in una passione bellissima, che è la scrittura. E sempre, ma proprio sempre, rappresentano il primo passo verso il cambiamento.
Mi dispiace non aver compreso quell’infinito buio che ti fagocitava dall’interno, cara nonna, dall’esterno non è mai semplice capire, ma ora lo so.
A distanza di questi infiniti dieci anni, sono diventata una donna, e ho deciso di rompere quel velo d’indifferenza che regna attorno alle malattie che ancora non conoscono una cura, e sono decisa a rompere ogni maledetto pregiudizio.
Non esiste una cura, no, è vero. Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, l’Alzheimer si prende qualcosa, rubandotelo, per non restituirlo più.
A me, questa terribile malattia, ha rubato i tuoi caldi occhi color miele, che a fatica, quando piango, rivivo nei miei. Li rivedo specchiati nei miei, e non vedo più l’Alzheimer.