Non sono pochi i giovani italiani che vorrebbero consacrare la propria esistenza alla ricerca. Non tutti possono riuscirci, né subito. Questo va da sé, come in qualunque ambito lavorativo ed esistenziale. Vale la pena, però, tracciare un abbozzo generale di ciò che significhi, ad oggi, tentare di intraprendere la strada della ricerca per i giovani italiani. Facendo un po’ di chiarezza, si comprenderà meglio perché, probabilmente, sarebbe opportuno che qualcosa cambiasse. Non sparate sul ricercatore.
Non sparate sul ricercatore. Ma si potrebbe benissimo dire anche non sparate sul giornalista freelance, sull’impiegato sottopagato, o regolarizzato con contratto part time e poi impegnato in un monte ore full time. Si potrebbe ancora dire non sparate sullo studente obbligato ad un tirocinio post-laurea il più delle volte non retribuito. Sul musicista, sull’artista, sul militare, su qualunque lavoratore non debitamente tutelato neanche sul piano della propria incolumità. Insomma, sostenere «non sparate sul ricercatore», non è una posizione esclusivista. Sostare su ciò che significhi, ad oggi, per un giovane italiano tentare di intraprendere la via della ricerca – di farne una professione – non esclude tutti quei soggetti che, nei più disparati ambiti e per le più composite cause, vivono quotidianamente un radicato e profondo senso di disagio.
Perché se il lavoro nobilita l’uomo ed è un assunto fondante della nostra Costituzione, occorre necessariamente interrogarsi, con perizia, rigore, professionalità, su quella che – di volta in volta – si configura come l’attuale condizione dei lavoratori nel nostro paese. Per tentare di comprendere se e in che misura, questa o quella categoria di lavoratori – o aspiranti tali – posseggano gli strumenti, le tutele, le prospettive che, a livello sistemico, possano garantire la strutturazione di un percorso. Di un tragitto, di un progetto, di un orizzonte che permettano all’individuo – nei limiti del possibile – di realizzarsi per ciò che è. Che poi questo dipenda dalla vocazione, dall’aspirazione, dalla passione, dall’equilibrio, dalla necessità, è appannaggio personale.
TENTARE LA VIA DELLA RICERCA
Poste queste premesse: perché «non sparate sul ricercatore»? Ad oggi, in Italia, la situazione sul fronte ricerca è, più o meno, la seguente: la si cita, la si millanta, la si pone come uno degli obiettivi cardine per la crescita del Paese ma i dati rimangono relativamente sconfortanti, rispetto ad altre realtà. E lo stato di cose non si tasta solo consultando i vari report sulla questione disponibili in rete. Ma anche, semplicemente, guardandosi intorno e scandagliando i vari bandi – scaduti o attivi – per accedere ai corsi di Dottorato di Ricerca.
Soprattutto sul fronte umanistico, il numero dei posti è esiguo, la competizione serrata. Non pochi sono gli Atenei che, per il XXXVIII ciclo di Dottorato, hanno addirittura ridotto, rispetto agli anni accademici precedenti, il numero di borse di studio. Cosa sommamente ironica, se accaduta proprio l’anno di consacrazione del PNRR, che dovrebbe destinare una discreta porzione dei fondi disponibili alla ricerca.
PNRR E RICERCA
Qui sta uno dei punti chiave della questione, forse non debitamente problematizzato. Secondo quanto previsto dal Piano di Ripresa e Resilienza, investire sulla ricerca non significa ampliare i già pochi posti disponibili per gli studiosi che intendano proseguire con un Dottorato di ricerca. O meglio: non significa creare nuove opportunità progettuali liberamente. Ma vincolarle a macro-tematiche – che, nella maggior parte dei casi, diventano micro-tematiche – in linea con i principali obiettivi del PNRR. Non, quindi, semplicemente posti in più per i dottorandi. Ma nuovi bandi che orbitano attorno a precisi alvei tematici, di certo di gran rilevanza. In linea di principio, anche fondamentali. Ma, senza troppi dubbi, eccessivamente vincolanti per chi si occupa di altre questioni non meno pregnanti sul piano della crescita del Paese.
Si tratta di un pungolo, di una «spinta gentile», per utilizzare una felice espressione di Cass R. Sunstein? Di una direzione impressa a livello sistemico per far sì che gli studiosi possano concentrare i propri sforzi su queste tematiche, ritenute giocoforza fondamentali ed irrinunciabili? Forse. Ma durante gli ultimi anni quanto, sempre a livello sistemico, ci si è rivolti su questi versanti e ci si è occupati di ciò?
VOLTARSI INDIETRO PER GUARDARE AVANTI
In altre parole: è stata debitamente strutturata la cornice, preparato il terreno fertile a questa imponente manovra? Sono state garantite le condizioni affinché schiere di studiosi si interessassero a queste tematiche? Anche perché vige il binomio: nuovi posti, tematiche vincolate. E, purtroppo, in più di un’occasione lo scorso anno è accaduto che una discreta parte dei posti di Dottorato finanziati con i fondi del PNRR – lo si ripete, a tematica vincolata – non sia stata assegnata semplicemente perché le richieste erano inferiori al numero di posti disponibili. Il che dovrebbe farci volgere all’indietro, sull’interrogativo appena posto.
Cosa è stato fatto negli ultimi anni? Cosa si può fare adesso? Un pungolo, una «spinta gentile», ammesso che a livello sistemico la si voglia imprimere, non può cadere dal cielo. E se ciò dovesse accadere, probabilmente, sarebbe più consono lasciare un più ampio margine, muoversi e dare la possibilità di muoversi con maggiore elasticità. Domande chiamano domande: tentare di strutturare – per rimanere sull’opera di Sunstein – una «architettura della scelta» a livello sistemico è una questione complessa e tremendamente seria. Non si tratta di operazioni neutre, generiche ma si entra in contatto con vicende esistenziali, progetti, persone.
RISERVE DI VARIO GENERE
Altre riserve tracimano dai bordi delle attuali condizioni imposte sistemicamente. Forse, una sosta su di esse, restituisce un significato maggiormente chiaro all’espressione «non sparate sul ricercatore».
Scandagliando i vari bandi, ci si imbatte in Commissioni composte da docenti che insegnano discipline non del tutto attinenti con i Corsi di dottorato di cui – almeno in fase di ammissione – sono soggetti giudicanti. Nessuno mette in dubbio che, potenzialmente, siano seri e rigorosi professionisti. Ma professionalità vuole che, soprattutto chi paga una tassa d’iscrizione – solitamente orbitante tra i trenta ed i cento euro – per partecipare ad un bando, sia giudicato da addetti ai lavori, professionisti del settore. Insomma, giusto riporre fiducia nelle istituzioni ma entro certi limiti: ad ognuno il suo.
Soprattutto dopo anni costellati da scandali, inchieste e processi che – non volendo con ciò esemplificare uno stato di cose ben più complesso – hanno minato non poco la credibilità dell’istituzione universitaria.
Regolamenti d’ateneo, poi, fissano, a priori, un tetto massimo di guadagno per ogni dottorando. Sorvolando sulla retribuzione di base riservata ai ricercatori, tocca qui chiedersi: per quale motivo un dottorando deve essere sottoposto ad un controllo sulla retribuzione annua lorda extra borsa di studio? Non si tratta di stipendi base da capogiro. Un dottorando che si sposta in un’altra città per intraprendere il proprio percorso non può che impiegare buona parte di ciò che percepisce per spese di mantenimento. Non si capisce bene per quale motivo, qualunque sia l’ulteriore, lecita e dichiarata fonte di guadagno, debba essere monitorata e aprioristicamente calmierata. Pena: il decadere del proprio ruolo, l’impossibilità di conseguire il Dottorato di ricerca, superata una certa soglia di guadagno.
PROSPETTIVE DA RICERCATORE
Se non altro non si capisce bene neanche perché sia previsto un posto senza borsa, riservato al candidato che si posiziona all’ultimo posto utile in graduatoria per accedere al Dottorato. A prescindere dal fatto che questo studioso percepisca o meno già un reddito. In altre parole: accettare un Dottorato senza borsa significa affrontare i tre anni di studio, impegno, lavoro esattamente come gli altri dottorandi, senza però percepire un centesimo. Da qui l’interrogativo: un ricercatore che si trovi in queste condizioni, magari spinto dalla vocazione ad accettare il posto a titolo gratuito, come dovrebbe riuscire a mantenersi? Discorso, questo, che a venticinque, ventisei, ventisette, ventotto anni – e anche oltre – diventa ancora più gravoso e pressante. Quando, in Italia, un ricercatore dovrebbe non tanto autonomizzarsi, ma potersi ritagliare almeno dei margini di autonomia economica?
In questi e in altri elementi, affonda le radici l’amara riflessione «non sparate sul ricercatore». E da ciò, dovrebbero squadernarsi ulteriori interrogativi tesi a tracciare alternative a livello sistemico. Che si tratti di ricercatori, impiegati ed altre categorie lavorative – ognuna delle quali tediata da più o meno pressanti e specifici vincoli sistemici – è necessario agire. Per ora, per quel che si può, ci tocca chiedere a gran voce, pur non dimenticando tutti gli altri: «non sparate sul ricercatore».
Mattia Spanò