Strade, ferrovie, ponti, aeroporti. Lo stato di salute delle infrastrutture italiane non è delle migliori condizioni. Nella maggior parte dei casi si tratta di opere risalenti agli anni Sessanta, l’epoca del boom economico. Allora c’erano molte più risorse economiche per costruire le infrastrutture ma è altresì vero che le tecniche e i materiali di costruzione erano ben diversi da quelli attuali.
La strage del crollo del ponte Morandi di Genova è un triste esempio dello stato di precarietà in cui versano le autostrade italiane. Con questo non si sta dicendo che sono tutte a rischio crollo ma eventi del genere portano inevitabilmente a porsi il problema della sicurezza. E se l’Italia negli anni del boom economico era all’avanguardia in Europa nella dotazione infrastrutturale, oggi le cose sono l’esatto contrario.
Questo significa che nel nostro paese gli investimenti nella progettazione e nella costruzione di nuove strade sono davvero risicati, e anche quando si trovano le risorse essere vengono spese con opinabile razionalità. Basti pensare all’Autostrada A35, meglio nota come BreBeMi e che collega direttamente Brescia con Milano. A causa dei pochi passaggi è stata ribattezzata “autostrada fantasma”. Costata 2,4 miliardi di euro (si tratta di soli capitali privati) è stata inaugurata il 23 luglio 2014 e sin dalla sua apertura non ha incontrato il successo sperato: nel 2017 i transiti al mese sono stati appena 16mila.
Il medesimo discorso vale per l’Autostrada A31, detta Valdastico, i cui tempi di realizzazione la dicono lunga anche sulla burocrazia italiana. Concepita per collegare Rovigo con Trento, pare fosse un’opera fortemente voluta da tre esponenti di spicco della DC negli anni Settanta. Il primo tratto, noto come Valdastico Nord, fu inaugurato nel 1976 e già all’epoca la nomea della A31 fu di “autostrada più inutile d’Italia”. Il secondo tratto, la Valdastico Sud, è stato inaugurato nel 2015, ben 39 anni dopo l’apertura del primo tratto.
Non solo autostrade
Ma il problema non è solo una mancanza di progettazione per nuove infrastrutture. A dire il vero il problema non tocca più di tanto nemmeno il sistema autostradale. A parte il tragico episodio di Genova, le società che gestiscono le autostrade sarebbero obbligate per contratto a reinvestire parte dei ricavi dei pedaggi nella manutenzione delle arterie.
Il vero problema riguarda la condizione delle strade provinciali italiane, spesso ridotte a un vero colabrodo. La lamentela arriva proprio dal presidente dell’Unione delle Province italiane, Achille Variati, il quale denuncia l’impossibilità di gestire oltre 130mila chilometri di strade a causa della perenne mancanza di fondi. A causa dei continui tagli alle risorse da destinare alle province programmare la manutenzione è pressoché impossibile.
Giusto per dare l’idea della situazione precaria in cui operano molti enti provinciali, in alcuni casi i tecnici sono costretti a effettuare controlli a vista, per non parlare di quando i tecnici non ci sono proprio.
E così sempre più province stanno riassegnando la gestione delle strade all’Anas, dalla quale oltre vent’anni fa furono prese in gestione le strade. E quando non ci sono le risorse per mettere in sicurezza le arterie esse vengono chiuse direttamente: si contano infatti 5.000 chilometri di strade, ponti, viadotti e gallerie chiusi perché pericolosi. Questo quando va male, mentre quando va un po’ meglio si abbassa il limite di velocità. Si stima così che sul 50% della rete stradale provinciale sono stati fissati limiti dai 30 ai 50 km orari.
Alla luce di ciò sorge un altro interrogativo. Se questo paese trova difficoltà persino a gestire opere a livello locale, come si può pretendere che sia in grado di gestire degnamente infrastrutture a livello nazionale?
Nicolò Canazza