Non sappiamo com’è fatta una guerra

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Non sappiamo come è fatta una guerra. Ma sappiamo come siamo fatti noi, che pensiamo che “i cattivi” siano sempre e solo gli altri.


Io non lo so, com’è fatta da vicino una guerra.
Non so cosa si prova a dormire in metropolitana mentre fuori cadono le bombe.
Non ho mai dovuto salutare la mia compagna e mio figlio che partono per mettersi in salvo all’estero, mentre io vengo spedito al fronte e non so se li rivedrò mai più.

Non è retorica da Libro Cuore, è esattamente quello che succede.
E io posso solo immaginarlo, noi tutti possiamo solo immaginarlo, perché abbiamo avuto la fortuna di nascere in un occidente dove la guerra non si vede da quasi 80 anni.

E in questi 80 anni, di guerre ce ne sono state migliaia, nel mondo.
Spesso le abbiamo fatte anche noi.
Ma erano così lontane che era più difficile immedesimarsi nel figlio o nel papà spedito al fronte, oppure nella mamma che non vuole far partire il figlio appena maggiorenne.

E poi le nostre erano “missioni di pace”.
Le nostre bombe erano “intelligenti”, mica stupide come quelle in Ucraina.
Poi, certo, nella prima guerra del Golfo morirono 20.000 civili, e nella seconda circa dieci volte tanti, secondo l’ONU (223.000), ma forse poterono consolarsi pensando all’alto QI delle bombe che li uccidevano.

In Siria, i morti tra i civili sono stati tra i 350.000 e il mezzo milione, secondo l’ONU.
E anche lì noi occidentali eravamo “i buoni”.
E anche lì, non ci siamo immedesimati in quei papà, quelle mamme, quei figli.
E non abbiamo mai pensato di prenderci carico di quei profughi. Più di 5 milioni.

Come abbiamo messo subito in chiaro, con Salvini, che non avremmo accolto i profughi afghani.
Abbiamo occupato il loro paese per anni, dopo averlo bombardato, poi lo abbiamo abbandonato in mano ai talebani, e adesso quelli pretendono pure di venire qui? Ma siamo pazzi?

Un po’ come Orban, che lascia gli altri profughi a crepare di freddo al confine, ma accoglie gli ucraini.


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Li “sentiamo” più vicini, perché sono più vicini.
E perché non siamo stati noi a buttare giù le loro case o a decimare le loro famiglie.
È stato Putin.
Che è un mostro, e siamo tutti d’accordo, ma allora cosa siamo stati noi occidentali in Afghanistan o in Iraq?
Le nostre bombe erano più “buone”, giusto.

E anche a me, che non ho mai vissuto una guerra e posso solo immaginare la paura, la disperazione che produce, risulta più semplice immedesimarmi in un ucraino che in un afghano.
Non sono mica diverso dagli altri.
Credo che sia un meccanismo naturale: riusciamo ad empatizzare di più con chi ci è più vicino culturalmente e geograficamente.

E Dio, se ti strappa via il cuore, sentire le interviste ai profughi.
Gente che, da un momento all’altro, è dovuta scappare per restare viva, per cercare di proteggere i propri bambini, spesso lasciandosi dietro tutta la propria vita, genitori e coniugi compresi.
Non lo possiamo immaginare, no.

Per quanto riguarda gli altri, invece, quelli che magari abbiamo bombardato noi “buoni”, non vogliamo immaginarlo.
Non li prendiamo neanche in considerazione.

Ricordo quando, una volta, Salvini mostrò la lista delle nazionalità di coloro che erano stati salvati da una nave ONG, chiedendo ironicamente quanti di quelli scappassero da una guerra o da una dittatura (sottintendendo che nessuno venisse da una situazione di reale pericolo).
Erano praticamente quasi tutti.
A bordo ce ne saranno stati un pugno, di “migranti economici”.
Ma lui non lo sapeva, i suoi commentatori non lo sapevano.
Erano guerre e dittature troppo lontane, quindi non esistevano.

Come dicevo, io non so come è fatta una guerra.
Ma so come siamo fatti noi.
So come ci autoassolviamo costantemente per pensare che “i cattivi” siano sempre e solo gli altri.

Anche questa guerra finirà, prima o poi, e tra qualche anno i “poveri profughi ucraini” diventeranno magicamente “gente che ruba e stupra le nostre donne”, specialmente se dovessero arrivare anche gli uomini e non solo le mamme con i bambini.
Anche loro diventeranno “indesiderabili”, quando ci accorgeremo che, chi ha perso tutto, spesso, poi, è povero.

A cosa siamo disposti a rinunciare, pur di aiutare gli altri?
Se lo chiedono tutti, in questi giorni.
Davvero vogliamo restare al freddo, senza gas e con dei prezzi della benzina triplicati, per aiutare gli ucraini?
Salvini ha già detto di no.
E noi?
Siamo disposti a perdere un pezzettino del nostro benessere, a rivoluzionare le nostre esistenze, per solidarietà con un altro popolo?

Forse, sull’onda dell’emotività, molti oggi risponderebbero di sì.
Ma siamo sempre quelli che scendevano in piazza indignati perché “non potevamo accoglierli tutti noi”.
Erano altre guerre, ok, lontane e sconosciute, ma in quel caso il sacrificio che ci si chiedeva era estremamente minore.
Semplicemente non li volevamo qui.
Oggi, invece, ci si chiede di rinunciare davvero a qualcosa di nostro, a un po’ del nostro stile di vita.

Perché non possiamo proprio immaginarlo, cosa si prova a stare sotto le bombe.
Non ci riuscivano neanche quando a bombardare eravamo noi.

Emiliano Rubbi

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