Vestita con l’universale potere di donare la vita, la maternità non ha un solo abito, né un unico volto. Misteriosa, straordinaria e multiforme, assume talvolta risvolti oscuri. Tra questi, assai più comune di quanto appaia, c’è la depressione post partum.
Le donne sono state abituate a ritenere il ruolo di madre come parte integrante della propria natura. Essere madre diventa sinonimo di un processo naturale. Un programma, una tappa, un traguardo stabilito da leggi incontestabili. Chi non ne esce vincitrice, chi non lo desidera, chi perisce di fronte della gioiosa maternità, gioca un brutto scherzo all’umanità. La depressione post partum, tra i volti nascosti di una gioia incontestabile, è spesso nascosta, taciuta e ignorata.
Molte donne vengono lasciate sole col proprio ruolo di madre. Sedate all’idea che le crisi di pianto, gli sbalzi d’umore, l’insonnia, i pensieri deleteri partoriti dalla propria mente siano elementi temporanei, passeggeri, normali. Parte di un processo comune, che è toccato a tutte e che tutte, infondo, hanno superato con successo.
Le aspettative sul proprio ruolo di madre incidono enormemente, così come l’idea che tutto sia parte di una normalità condivisa. Per anni, la retorica della maternità come periodo idilliaco ha dominato menti e società, incidendo sull’abitudine di ignorare segnali potenzialmente pericolosi. È fondamentale, per questo, chiarire sin da subito punti essenziali: non riposare mai, gestire ogni cosa sole, avere cattivi pensieri sono tutti campanelli d’allarme che meritano la giusta attenzione.
Invalidare il proprio malessere
Come riporta il sito del Ministero della Salute, secondo studi condotti in diversi paesi, la depressione post partum colpisce una percentuale di donne tra il 7% e il 12%, esordendo tra la 6ª e la 12ª settimana dopo la nascita del figlio. I sintomi, molti e variabili, in genere vengono pericolosamente ignorati: crisi di pianto, cambiamenti d’umore, irritabilità generale, perdita di appetito, insonnia, difficoltà a rimanere svegli, assenza di interesse verso qualsivoglia attività quotidiana o, ancora, verso lo stesso neonato.
A generare la nascita della depressione post partum, le cause più disparate. Tra le prime ragioni, lo squilibrio ormonale o un parto particolarmente traumatico, capace di causare un vero e proprio disturbo post traumatico da stress, curabile anche attraverso la terapia EMDR.
A incidere fortemente sono anche le aspettative sociali. Il rischio è quello di non sentirsi autorizzate a provare sentimenti negativi, invalidando il proprio malessere, soprattutto a fronte della nascita di un figlio. Non sentirsi in grado di adempiere a un ruolo eterno, complesso, come quello di madre. L’equilibrio viene meno: le emozioni diventano stratificate, altalenanti, tra loro opposte. Si è felici, ma anche tristi. Si è allegre, ma anche sopraffatte dalla responsabilità di un peso che non si ha il coraggio di definire.
Importante è alzare la voce, così come riuscire ad ascoltare richieste d’aiuto sussurrate. La depressione post partum, infatti, può essere diagnosticata, affrontata e infine curata.
Riconoscere di aver bisogno di aiuto, all’interno di una situazione diventata deleteria, è tutto fuorché una colpa o un atto di puro egoismo. Pensare al proprio benessere, prendendosi cura di sé, porterà piuttosto a un incondizionato benessere trasmesso, di riflesso, al proprio figlio.
La depressione post partum può interferire fortemente col riuscire a instaurare un interscambio di comportamenti e di emozioni tra madre e figlio. Un interscambio fondamentale, capace di prevenire le conseguenze a lungo termine sullo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del bambino.
Per diagnosticare la depressione post partum efficace è l’Edinburgh Postnatal Depression Scale – EPDS – o Scala di Edimburgo, sviluppata negli anni Ottanta. Un questionario di dieci item concepito come strumento di screening, volto a migliorare l’individuazione della depressione post partum nel contesto dei servizi sociosanitari.
Non riconoscersi e mancarsi
Le donne, a seguito del parto, possono faticare a riconoscersi. Inedita, insospettata, la spaccatura fra presente e passato arriva senza alcuna preparazione.
Il corpo cambia, muta il proprio ruolo, l’ordine delle priorità. I figli iniziano ad occupare con prepotenza, ferocia, ogni primo posto. Tutto ciò che, invece, occupava spazio e dedizione prima, rischia di annullarsi, cadendo nel dimenticatoio.
Pensare a sé prima della maternità può provocare nelle donne un’insaziabile nostalgia, soprattutto a fronte dell’enorme pressione sociale dovuta al dover diventare, prima d’ogni cosa, appendice dei propri figli.
La società impone scadenze, limiti per diventare madri e obblighi a cui adempiere dopo esserlo diventate. Così, a diffondersi è il timore di non potersi più ritrovare.
Eppure, la maternità non può rendere le donne solo madri. Ripartendo da passi apparentemente piccoli, è necessario compiere un percorso a ritroso: riprendersi il proprio corpo, spazi, lavoro, interessi, desideri.
Ogni donna è libera di poter reinventare la propria maternità, di essere madre e donna a suo modo, liberandosi da canoni preimpostati e aspettative altrui. Fondamentale, poi, è la collaborazione. Chiunque stia accanto a donne diventate madri, può rendersi utile abbandonando stereotipi e convenevoli. Primi fra tutti, i padri. Difatti, pur occupando un grado di importanza alla pari, le responsabilità paterne per lungo tempo – e ancora oggi – risultano fortemente surrogate alla sola presenza femminile, accentuando atteggiamenti patriarcali e l’isolamento delle donne.