Un Ciceruacchio dei giorni nostri. Benvoluto (e temuto) da tutti. Altro che orso dalla faccia burbera e il cuore d’oro, stereotipo tanto caro all’immaginario nazional popolare quando si ha a che fare con soggetti di difficile collocazione. Mario Brega era un tornado fatto di cellule e carne. Un vulcano sempre in procinto di eruttare. Uno con cui le carezze potevano diventare schiaffi, le risate pianti di dolore.
Ne sa qualcosa il maciste americano Gordon Scott, tutto muscoli e superbia, che fece l’errore di lasciare qualche livido sull’avambraccio dell’attore romano durante le riprese di una scena di lotta in “Buffalo Bill, L’eroe del Far West”, pellicola del 1964 diretta da Mario Costa.
“Ma che stai a fa sur serio?” gli avrebbe domandato Brega, irrompendo nella sua roulotte-camerino, il giorno seguente alla finta scazzottata, mostrando i segni sul corpo. Fatale la reazione infastidita del divo americano e verissima la scazzottata che ne seguì, in cui l’Ercole che sconfisse Moloch nel film di Giorgio Ferroni restò sul selciato con il naso fratturato, mentre quel colosso di via Ostiense lo incalzava: “Arzate! Arzate a cornuto arzate!”.
Una scena surreale, da film. Ed è proprio nella pellicola di Carlo Verdone “Borotalco” che Brega ridà vita a quel siparietto, facendo la cosa che gli è sempre riuscita meglio: portare tutto se stesso nella recitazione.
Esuberante, sopra le righe per vocazione, lavorava recitando eppure era allergico ad ogni finzione. Quando recitava, che fosse su un set western di Sergio Leone, in un dramma borghese di Risi o in una commedia di Verdone, lo faceva rigorosamente in romanesco, lasciando ai doppiatori l’onere di normalizzarne la performance.
Secondo i racconti del biografo Ezio Cardarelli, contenuti in “Ce sto io… poi ce sta De Niro“, il giovane Mario Brega, nell’epoca d’oro di Cinecittà, i dorati anni cinquanta, faceva avanti e indietro per Via Veneto, bazzicata da registi, attori e produttori, incalzandoli a turno con la frase di rito: “Maestro, me provi”.
La svolta a metà degli anni sessanta, quando Sergio Leone lo scrittura per la trilogia del Dollaro, facendolo conoscere al grande pubblico. E il buon Mario, che alla forma ci teneva, spende il primo stipendio in una Mercedes bianca, tale e quale a quella del genio dello Spaghetti western che se lo portava a spasso ovunque, un po’ come musa, un po’ perché con uno così vicino i malintenzionati scarseggiano.
Figlio di Primo Brega, un falegname con la vena per la corsa, che gli valse per tre volte il titolo italiano sul mezzo fondo e un riconoscimento del duce in persona, oltre al fisico possente e massiccio, Mario ereditò dal padre gli ideali politici. In “Un Sacco Bello”, strepitoso saggio di commedia diretto da Verdone nel 1980, Mario Brega interpreta il padre di Ruggero (Verdone), l’hippie caricatura della crisi generazionale vissuta dai giovani negli anni ’70, tutto anticonformismo e zero contenuti. In una scena, accolta di diritto nell’epos nazional popolare del cinema nostrano, il padre, esasperato dai discorsi e dagli atteggiamenti del figlio, chiamato “fascio” dalla fidanzata di lui, in uno scatto di ira e orgoglio serra entrambi i pugni per urlare: “A me fascio? Io fascio? A zo***lè io mica so’ communista così sa, so communista così!”.
Ebbene, a sentire il regista ed amico di Mario Brega, Carlo Verdone, ci volle tutta la diplomazia e il tatto possibili per convincere il caratterista a prestarsi alla scena. Motivo? Mario Brega, comunista, non lo era nemmeno un pochino. Anzi. Eppure in quello slancio, divenuto icona di comicità, molti videro lo scontro tra il paradigma del vecchio comunista inossidabile e il nuovo modello sessantottino. Insomma, un baluardo, suo malgrado, della sinistra.
Giocatore incallito e gabelliere esigente, nonostante la fama ottenuta con il cinema, continuava a passare le nottate giocando a carte, tanto nelle bische quanto nei club esclusivi, e le giornate in giro per la Capitale a riscuotere le vincite dai cattivi pagatori.
Uno che saltava a piedi pari dal cinema alla vita (e vicerversa), mescolando e portando con sé elementi della realtà e della finzione.
Brega era folle ma anche generoso oltre misura. Poteva portarti a casa dieci casse di frutta. Come poteva urlarti dalla strada: ‘A’ busciardo. M’avevi promesso venti pose e mo’ me ne fai fa’ cinque? Scenni che parlàmo. A’ busciardo, io mica so’ n’accattone’. Era imprevedibile. E c’era un solo modo per farlo calmare, farsi trovare fragile, debole. Se poco poco provavi ad affrontarlo rischiavi di finire male.
Carlo Verdone
Non era un santo, non era un gigante buono né tanto meno un carattere facile. Non era incline al dialogo né amante delle mezze misure. Ma era genuino e spontaneo, esuberante ai limiti della follia, impulsivo ma corretto. Di una cosa siamo sicuri, sebbene questo sia un mondo di cattivi pagatori, Mario Brega sapeva essere convincente ancor prima di torcerti un capello. Del resto “sta mano po’ esse fero, sta mano po’ esse piuma”. Più che un monito, un mantra.
Alessandro Leproux