Un giornalaio genovese vende il calendario 2020 di Mussolini (se non fosse una cosa orrenda, ci sarebbe da ridere), delle persone gli fanno notare che è apologia di fascismo e che dovrebbe toglierlo.
Lui risponde:
“Anche i finocchi vengono qui e mi chiedono di togliere i calendari con le donne nude”.
Una signora commenta:
“E’ la libertà di espressione”.
In questa scena di quotidianità c’è tutta l’Italia di oggi: tra negazionismo e sovranismo, a poco a poco, sono state sdoganate parole, epiteti, atteggiamenti, punti di vista e posizioni che prima nessuno o quasi osava utilizzare. E non solo perché erano vietate, ma perché non facevano parte di noi, del nostro Paese. Oggi, purtroppo, questo gravissimo sdoganamento viene da molti interpretato come “libertà” di parola, di espressione, di dire quello che uno pensa e vuole. Senza alcun limite. E, così, anche parlando ai giovani, non è facile spiegare che una cosa è la libertà di espressione e un’altra sono i limiti che una comunità si dà.
Perché la questione è che tutti cresciamo e diventiamo adulti sapendo che certi insulti, certe affermazioni e l’espressione di certi pensieri che, magari, ti possono salire dalla pancia, sono tabù: semplicemente non li devi dire perché la società in cui vivi ti dice che non si fa, che la Storia ha stabilito alcuni punti fermi, che, magari, ci sono stati alcuni milioni di morti a suggellare un patto non scritto di “indicibilità”. Non si insultano le persone con riferimenti razziali, sessuali o religiosi, non si dice “tua madre è una poco di buono”, non si minaccia di morte il prossimo, non si insulta la Resistenza (è anche reato) e tra fascismo e antifascismo la nostra Storia ha stabilito che l’antifascismo ha ragione e il fascismo ha torto e, meno che mai, sono la stessa cosa.
Tutti limiti che vengono rotti ogni giorno nel privato di una lite domestica, stradale o da bar. Il guaio è quando la rottura diventa pubblica, diventa sfida sul social a chi la spara più grossa (“so chi sei, se ti trovo sei morto”) e, soprattutto, viene utilizzata scientificamente per alzare i toni, per urlare cose che nella pancia della gente magari ci sono, ma sarebbe meglio che non uscissero in queste forme. E chi sta in posti di responsabilità: sia sportivo che artista, sia personaggio pubblico che giornalista, sia insegnante che genitore, dovrebbe fare il doppio dell’attenzione.
Perché questi (pochi) limiti, siamo noi; sono il senso stesso di una comunità che ha tanti difetti ma anche un’identità. E se vogliamo che questa identità venga rispettata in giro per il mondo, dobbiamo, prima di tutto, rispettare noi stessi, la nostra Storia e la nostra tolleranza.
Il reato di apologia di fascismo NON ESISTE, la leggere punisce i tentativi di ricostituzione del partito fascista non la semplice apologia
cito:
La definizione appare già abbastanza ampia, ma negli articoli successivi veniva ulteriormente allargata. L’articolo 4, infatti, rende perseguibile anche il reato che ha finito con il diventare sinonimo della legge, l’apologia del fascismo (cioè letteralmente la difesa, a parole o scritta, del regime fascista). Chi «esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche», stabilisce l’articolo 4, rischia dai sei mesi ai due anni di reclusione.
Apparentemente la legge Scelba considera quindi reato anche soltanto parlare bene del fascismo o dei suoi esponenti: in base a una semplice lettura del testo dell’articolo 4 sembra che gridare «Viva Mussolini!» possa di per sé essere considerato reato. Varie sentenze della Cassazione hanno però rapidamente ridotto notevolmente il perimetro in cui applicare la legge Scelba.
Negli anni immediatamente successivi alla sua approvazione, infatti, la legge Scelba venne immediatamente utilizzata contro diversi esponenti del Movimento Sociale Italiano, il partito politico fondato nel 1946 da un gruppo di reduci del regime fascista. Nessuno di loro era accusato di cercare di ricostruire il partito fascista, in base all’articolo 1 della legge. Erano invece accusati di apologia del fascismo, in base all’articolo 4. Gli imputati dissero che l’articolo 4 della legge era in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione. Il tribunale di Torino, uno dei tre che si stavano occupando dei processi, trasmise il rilievo alla Corte Costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale arrivò nel gennaio del 1957 e stabilì che la legge Scelba non violava la Costituzione. Ma contemporaneamente precisò il significato dell’articolo 4: per esserci una vera e propria apologia di fascismo non è sufficiente che ci sia «una difesa elogiativa» del vecchio regime, ma è necessaria «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista». Non è reato difendere il fascismo a parole, ma solo se viene fatto «in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione».
Due anni dopo, nel dicembre del 1958, una seconda sentenza della Corte Costituzionale fornì una simile precisazione anche per l’articolo 5 della legge Scelba, quello che proibisce manifestazioni fasciste e che, secondo alcuni, era in contrasto con la libertà costituzionale di riunirsi e manifestare. Anche qui la Corte stabilì che le manifestazioni erano vietate, ma solo nel caso in cui fossero propedeutiche alla ricostruzione del partito fascista.
Insomma, le interpretazioni della legge Scelba stabiliscono che fino a che un giudice non decide che è in corso un tentativo di fondare un nuovo partito fascista, è legittimo difendere Mussolini e il fascismo, fare il saluto fascista, vendere memorabilia del regime e manifestare con divise e bandiera fasciste.
Quindi sì, dire viva Mussolini (cosa che non mi riguarda perché ho altre idee, ma mi interessa il principio in quanto liberale) è libertà di espressione e non lo affermano Salvini e Meloni ma le sentenze della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana