Francesca de Carolis
“Solo tre mesi, ma sufficienti a provare concretamente cosa sia il carcere: un’istituzione totale fondata su principi non certo di giustizia, ma di repressione e di vendetta, controproducente per qualsiasi volontà di riscatto”.
Solo tre mesi, ma Nicoletta Dosio, in prigione perché “colpevole” di far parte del movimento che da trent’anni lotta in Val di Susa contro quell’ormai inutile quanto devastante “grande opera” che è il TAV, vede e vive sulla sua pelle quanto basta per capire tutto. E ci offre le pagine dello straordinario diario di quei tre mesi: “Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav” (RedstarPress).
Nicoletta Dosio, che con i suoi 75 anni avrebbe potuto chiedere i domiciliari, ha scelto il carcere, per continuare ad essere al fianco di chi ha lottato e lotta con lei per la propria terra, ma anche perché non può accettare l’idea di fare della sua casa la sua prigione. E anche per questo motivo (può sembrare paradossale ma non lo è) il suo diario diventa un inno alla libertà. Come lo sono la sua fierezza, il suo non genuflettersi mai…
Lo sguardo di Nicoletta Dosio è attento, dolorante e fiero al tempo stesso. E anche dalla prigione su tutto si allunga, mai smette di ascoltare il respiro della sua Valle. Così il dentro e il fuori si incontrano, nel suo sguardo e nel suo sentire, che diventano, ancora, denuncia.
E’ fine d’anno quando Nicoletta entra in carcere, a Le Vallette, dove “niente comete per noi, niente streghe liberatrici, solo uno spicchio di luna crescente in uno spazio vuoto” mentre intravede oltre i blindi “ragazze venute dagli inferni dell’emigrazione che si trascinano appresso la loro povertà, più povere e dimenticate del bambino per il quale migliaia di anni fa i Magi si misero in viaggio guidati dalla stella”.
E racconta… la mortificante perquisizione corporale (essere nuda davanti alle guardie), l’essere condotta in ospedale in manette, la cattiva arroganza delle guardiane, i momenti di riposo da quel nulla che è il carcere.
E ascolta… i lamenti flebili e disperati, le voci dell’intimità infranta dei colloqui… E osserva a registra…
A proposito di C. , donna con problemi psichiatrici, rinchiusa in cella di rigore, “Mi chiedo come possa essere questa la medicina per il suo disagio di vivere. Ho chiesto di andare in infermeria. Passando, ho buttato un occhio attraverso lo spioncino. Lei, completamente nuda, giace su un materasso a terra, in una cella vuota. Dorme. Intorno fa freddo: il freddo di gennaio in carcere. Mi rivolgo alla secondina che mi sta accompagnando: “Perché?”. “Si impiccherebbe con le sue mutande”. “Ma è questa la soluzione?”. “Dosio, sbrigati!”.
Due anni dopo arriverà lo scandalo del “Sestante”, le denunce, la sua chiusura. Ma il carcere rimane tutto in questa allucinante violenta assurdità.
“Tra queste mura c’è davvero il mondo e non solo in senso geografico: vite sommerse, gettate dalla marea su questa spiaggia senza sole, dove si può davvero morire per un sì o per un no” .
Se il dentro è l’incontro con un’umanità sofferente che Nicoletta sa sempre accogliere e abbracciare, il fuori sono le voci dei tanti che le scrivono, e l’eco dei ragazzi, degli uomini e delle donne del Movimento che mai la lasciano sola. Il fuori sono anche i boschi della Valle, che sempre, mentre guarda oltre le sbarre, arrivano a riflettersi nei suoi occhi.
L’inno alla libertà, che arriva comunque da queste pagine, è accompagnato e composto da un intreccio di sussurri.
Come l’improvvisa brezza di liberazione, che accarezza tutte nello scoprire che l’uomo crocifisso (“esposto in ogni cella per ricordare che la vita è espiazione e che mettersi contro il potere significa prima o poi finire male”) non c’è più, deve essere sceso dal patibolo lasciando la croce vuota. Insomma, qualcuna era riuscita a portarlo via, a liberarlo, infine.
Come la poesia dello sguardo di una giovane sinti che raccoglie e fa volare via oltre le sbarre uno scarafaggio, mentre… “Perché non lo hai schiacciato?” domanda la guardiana. (Mi ha ricordato, questo, la fiaba di uno zingaro che costruiva gabbiette per uccelli, ma che non poté vivere di questo suo lavoro, perché riusciva a costruire solo gabbiette dalla quali gli uccelli potessero volare via).
Come, ancora, il bianco degli alberi di ciliegio che marzo riveste di fiori, ché “la primavera elude costrizioni e divieti”.
Commuove, leggendo la prefazione di Haidi Giuliani, la mamma di Carlo ucciso durante il G8 di Genova, l’intreccio di queste due voci di donna, il loro incontro fra una marcia sull’onda del movimento No Tav “lungo lo sterrato che conduce al cantiere” e un chiacchierare lieve di animali e di boschi.
Anche Haidi Giuliani conosce il carcere, per averne visitati molti durante il suo essere parlamentare (e magari qualche parlamentare in più sentisse il dovere di varcare quei cancelli…), anche lei sa bene che in carcere di criminali veri ce ne sono pochi. I più sono persone con le quali la nostra ricca civiltà è piuttosto in debito. “In debito con chi non è stato aiutato a progettare una vita degna di questo nome, con chi non è sato accolto, curato e messo nella condizione di lavorare serenamente”. Traspare dalle sue parole il legame di una forte amicizia, che è amicizia di sentire e di intenti, di due donne “dalla parte della vita”.
Nicoletta Dosio dal carcere è uscita ma, come anche da altri ho sentito dire, il carcere è cosa che poi sempre ci si porta dentro. Per Nicoletta, soprattutto, per un suo nobile sentire, ché “la liberazione o è collettiva o non lo è”. Perché quando lo si è conosciuto, il carcere, in tutta la sua bruttura, il pensiero di chi sai rimane lì dentro è cosa difficile da scrollarsi di dosso.
“Fogli dal carcere”, dunque. Che accende anche per noi una luce sul singolare accanimento giudiziario nei confronti degli attivisti del Movimento No Tav, che tutto va avanti nella nostra indifferenza. Ma vale la pena di leggere per capire qualcosa in più della nostra moderna democrazia.