Qualcuno ormai ci ha fatto l’abitudine. Qualche altro attende con ansia la sua posizione su qualsiasi argomento dello scibile umano, dal surriscaldamento climatico alla vittoria di Trump negli Stati Uniti. Ma c’è un terreno sacro dove, non ce ne voglia, Saviano e qualsivoglia personaggio pubblico dovrebbe avvicinarsi con i piedi scalzi, perché terreno sacro: il rapporto tra una madre e un figlio. I guanti bianchi non bastano. Nemmeno le formule di cortesia. Quando si teme di sconfinare, meglio adottare quella “tanta poesia” che c’è nel silenzio, come cantava Lucio Dalla.
Roberto Saviano ha tutto il diritto, come chiunque altro in questo Paese, di esprimere la sua posizione in merito alla liberalizzazione delle droghe leggere come su qualsiasi altro argomento. Ma dovrebbe fermarsi qui. Il buon senso mette qui un paletto invalicabile. Cosa ha portato la madre del sedicenne di Lavagna a denunciare il figlio alla Guardia di Finanza, al suicidio durante la perquisizione della stanza, a quelle parole pronunciate dalla mamma durante il funerale: su tutto questo Saviano avrebbe potuto e dovuto tacere.
Perché, si badi bene, in questa storia tragica, espressione di un dramma personale e al tempo stesso specchio di una società dalle mille fragilità e dai silenzi come pentola a pressione, non c’è spazio per ideologia, massimi sistemi, visioni generali della vita. C’è il dramma di una madre che non si rassegna a un figlio che sta bruciando la sua vita con le proprie mani. E le tenta tutte. E di storie simili, chi come Saviano ha trattato storie di mafia, dovrebbe saperne qualcosa.
Quante donne di famiglie ‘ndranghetiste, camorriste, mafiose, hanno preferito denunciare i propri figli per dare loro una seconda possibilità. Quante hanno lottato per ottenere dai giudici la revoca della patria potestà, perché i propri figli potessero ricostruirsi una vita lontano dalla loro famiglia di origine, in acque non avvelenate dalla mentalità mafiosa. Una madre riesce a farlo: riesce a rinunciare alla vita della propria vita, se è necessario. L’amore materno non conosce egoismo. Forse è invadente, forse esagera. Ma vuole solo il bene. E come il pellicano si rompe il petto con il becco, per non far mancare il cibo ai propri figli. E poi c’è una conseguenza imprevedibile: il suicidio.
Ma qui ci fermiamo pure noi. Quel dramma che ha portato ad alzare la cornetta, nel tentativo di illusione e speranza che la salvezza di un altro possa dipendere da noi, lo raccontiamo così, senza cercare di analizzarlo o spiegarlo. Ed è folle pensare che basti lo spinello legale a riscrivere una storia, è impensabile ridurre a questione legalitaria un dramma che era legato a un solo fatto: chi ama non vuole che l’altro si perda ed è disposto a tutto per tentare di salvarlo. Nulla avrebbe potuto placare il tormento dell’anima di una madre. E Saviano non è madre: non può giudicare.
Di questa tragica vicenda ci restano quelle parole pronunciate in Chiesa dalla madre: “Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale, che faticare a parlarsi è normale, che andare sempre oltre è normale. Qualcuno vuol soffocarvii…Straordinario è chiedersi aiuto proprio quando ci sembra che non ci sia via di uscita. Straordinario è avere il coraggio di dire ciò che sapete. Per mio figlio è troppo tardi ma potrebbe non esserlo per molti di voi, fatelo”.
Di questa tragica vicenda restano queste due parole: la normalità e lo straordinario. Nella faticosa e drammatica ricerca di ognuno di noi a cercare di capire cosa sia uno e cosa sia l’altro. E poi resta il dolore, le domande, i tormenti. Resta l’interrogativo di dove può arrivare una società incapace di dire dei NO.
Salvatore D’Elia