Il mondo arabo è vasto e la condizione femminile, nei diversi paesi, è fortemente diversificata. In questi giorni in tumulto è l’Iran, dopo la morte di Mahsa Amini, avvenuta in un contesto di forte matrice patriarcale e misogina, in cui la donna è un pericolo, una tentazione non solo morale, ma concretamente fisica per gli uomini.
La donna, creatura di cui in principio vergognarsi, peso da ereditare, è divenuta poi creatura da proteggere, rinchiudere, coprire, sino ad inghiottirla in vesti nere e informi. Eppure, nella fase preislamica, prima dell’arrivo di Maometto, vi era una triplice divinità femminile che si è tentato di cancellare, sino quasi a dimenticarla. Dio era in tre forme di donna.
Nella penisola arabica, durante il periodo pagano antecedente all’arrivo di Maometto, si adorava una triplice divinità femminile.
Dio viveva in tre forme di donna: Allāt, Al-‘Uzza e Manāt. Venerate a Nord di Petra e nelle terre della mitica Arabia Felix, il loro culto si espanse verso Est, fino a raggiungere l’Iran e le terre di Palmyria. Ciò che nascerà in seguito con l’arrivo dell’Islam, infatti, porterà con sé molti dei segni di un passato che riemerge, inevitabilmente, anche all’interno di un contesto maschilista.
La triplice Dea è un archetipo assai costante nelle religioni antiche. Basti pensare, in una visione a noi più familiare, alle Moire greche, alle Parche romane o ancora, alle nordiche Norne. Nell’Arabia preislamica le tre Dee saranno conosciute anche come le Tre Gru. In particolar modo nella Mecca, in cui le divinità di Al-‘Uzza e Allāt erano chiamate al-Gharānīq. Un vocabolo mirante ad esaltarne l’eccezionale bellezza e che letteralmente significava Gru, la cui bellezza agli occhi dei Coreisciti resterà, con ogni probabilità, sempre ignota.
Lo studioso Adam McLean sottolineerà l’importanza della triplicità divina. Questa, infatti, non è una semplice moltiplicazione, quanto più una triplice manifestazione, legata a più aspetti. Le tre facce della Dea corrispondono al cielo, alla terra e agli inferi, così come al presente, al passato e al futuro. Essa può manifestarsi come Vergine, Madre e Tempo, attraverso la rappresentazione delle diverse fasi della vita di una donna.
Allāt, la Madre
Il nome Allāt, contrazione del termine arabo al-Illahat, traducibile come “la Dea”, secondo la testimonianza di Erodoto deriverebbe dal termine Alilat, la Dea principale che fu venerata dagli arabi. La sua manifestazione in quanto Madre, indicava non solo la fertilità, ma anche il potere, la misericordia e l’equilibrio.
Chiamata Allāt nel mondo Arabo, ella era la stessa divinità femminile che appariva sotto molti nomi, presenti in tutto il mondo dell’Antichità: Iside, Venere, Fortuna, Diana, Astarte e altri ancora. Tutto testimonia la vastità del suo culto.
Portata nell’Hijaz da Palmira, probabilmente attraverso Teima, essa ebbe in Ta’if il centro del suo culto. Fu nella città di Ta’if che sorse il suo tempio, in cui un quadrato di pietra bianca simboleggiava il suo potere. Le donne, care ad Allāt, comparivano nude davanti alla sacra pietra, girandole intorno, pregando la Dea di esaudire le loro richieste e pronunciando dinnanzi a lei i giuramenti più solenni.
Come simbolo di Allāt vi era la mezza luna, simbolo rappresentativo di tutto il mondo arabo, accompagnata dal suo animale sacro, il leone. Tra le sue zampe il leone proteggeva e custodiva un’antilope, simbolo chiave della volontà della Dea di rifiutare ogni tipo di sacrificio, sia umano che animale. A confermare questa ipotesi è anche l’iscrizione sull’antico tempio di Palmira dedicato ad Allāt: “Allāt benedice chi non versa sangue nel tempio”.
Diverso è il caso della Vergine guerriera.
Al-‘Uzza, la Vergine guerriera
Al-‘Uzza, letteralmente “la Veneratissima” e “la Potentissima”, vide lo sviluppo del suo culto soprattutto nel Hijaz, l’area che oggi corrisponde alla parte Nord-Occidentale dell’Arabia Saudita. In seguito, diverrà oggetto di culto anche nella Mecca, da parte dei Banū Quraysh.
Conosciuta anche come la Vergine guerriera, la sua manifestazione in quanto Giovane, si legava alla nascita, allo sviluppo futuro, all’incanto e ai principi femminili.
Priva di un proprio santuario, inizialmente il suo culto avveniva presso una sorgente, nell’oasi del Palmeto Siriano – il Nakhla al-Shāmiyya – in cui le vennero consacrati tre alberi di Acacia ed una pietra nera, smussata, posta a rappresentare la sua energica e benefica essenza. Solo più tardi le sarà costruito e dedicato un santuario proprio, in una valle chiamata Hurad, appena fuori dalla Mecca, dove sorgeva un haram ed un altare sacrificale.
In origine, le venivano sacrificati esseri umani. In seguito, le saranno sacrificati animali e lo stesso Maometto, secondo alcune tradizioni, si piegò dinnanzi alla Dea guerriera, sacrificandole una pecora.
Manāt, la Vecchia
Manāt, chiamata anche Manawayat, è probabilmente la manifestazione più antica appartenente alla triade. Rappresentata come la Vecchia saggia, Manāt intesseva il destino di ognuno, il suo riposo, la sorte, la vita e la morte. Non diversa dalle Parche della mitologia romana, il suo culto era vasto e riguardava gran parte della penisola araba, sebbene fosse venerata soprattutto dalla tribù di Hudail e dagli abitanti dell’antica Medina, all’epoca chiamata Yathrib.
Il suo luogo di culto, anche questa volta caratterizzato dalla presenza di una pietra bianca, era situato nella località di Quḍayḍ, presso Mushallal, a circa quindici chilometri da Yathrib, lungo la fascia costiera del Mar Rosso.
La Madre, la Vergine e la Vecchia, dunque, erano i volti di una triplicità femminile potente, venerata e temuta. La stessa triade che, in seguito, si cercherà di cancellare, in ogni modo.
L’arrivo di Maometto e la rimozione del potere femminile
L’arrivo di Maometto, portatore dell’unica vera religione, dell’unica verità e di un solo Dio, cambierà ogni cosa.
Le donne nel Corano vengono definite uguali agli uomini, ma non del tutto: “Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio”. Si consolida così la supremazia maschile. Si pone così fine ad una divinità femminile.
I templi delle Dee furono distrutti dopo la conquista della Mecca da parte di Maometto, nel 631 D.C.
Il santuario di Allāt fu incendiato. Sulle sue ceneri verrà costruita una nuova moschea, voluta dallo stesso Maometto. La pietra bianca che per secoli aveva rappresentato la bellezza e lo splendore della Dea, fu usata come gradino per l’edificio, in segno di sottomissione e piegamento della Dea e del paganesimo verso Allah.
Anche il luogo sacro a Manāt fu raso al suolo, mentre il tesoro al suo interno venne razziato. I pezzi più belli, due spade chiamate Mikhdam – la tagliente – e Rasūb – la penetrante – furono donate da Maometto a suo genero Alì, con lo scopo di servire ancor meglio Allah, difendendo la sua parola.
Infine, i tre alberi di Acacia sacri ad Al-‘Uzza, la stessa Dea che, come già detto, perfino il profeta stesso aveva pregato durante la sua gioventù sacrificando una pecora, furono sradicati sin dalla radice, con lo scopo di cancellarne ogni traccia di memoria ed esistenza.
L’influenza della triplice divinità femminile nell’Islam
Tuttavia, nonostante la volontà di cancellare la triplice divinità femminile, insieme al loro potere, all’influenza avuta e alla loro storia, alcuni segni sono rimasti chiaramente visibili nell’Islam stesso. Ad esempio, il culto e la venerazione delle pietre, una pratica che affonda le sue radici nel paganesimo e nella rappresentazione di Allāt, Al-‘Uzza e Manāt.
L’Hajj, ovvero il pellegrinaggio alla Mecca, è uno dei cinque pilastri dell’Islam, un obbligo a cui ogni musulmano, prima o poi, dovrà rispondere. Una volta giunti alla Mecca, si dovrà girare in senso antiorario sette volte attorno alla Ka’ba, la celebre costruzione nera all’interno della quale si trova la pietra nera meteoritica, sacra all’Islam. Una pietra dalla forma particolare, che ci rimanda prepotentemente alla forma di una vulva, contornata da lamine d’argento e misteri.
Secondo la testimonianza dello storico Ibn al-Kalbi, nella fase pre-islamica, la tribù dei Quraysh aveva l’usanza di venerare proprio la trinità femminile ruotando attorno alla Ka’ba.
Simboli e riti antichi, capaci quasi di far credere che l’antica Dea d’Arabia possa donare un minimo del suo potere, nelle sue forme, alle donne che ancora oggi si ritrovano in condizioni disumane, spogliate di ogni diritto e coperte da ogni drappo. Invisibili agli occhi del mondo, ma ben visibili in ogni lembo di pelle scoperta, di capelli sciolti e forme mostrate.
Subordinate, addormentate come divinità potenti, ma dimenticate.
In attesa del risveglio.