Nave di Teseo: un paradosso diabolico che parla di noi

Nave di Teseo: quale sarà quella vera?

Quello della nave di Teseo è uno dei paradossi più famosi e dibattuti di ogni epoca. Le ragioni di tanta fortuna? Quando se ne discute, apparentemente si parla di metafisica, ma è un attimo ritrovarsi sul terreno (scivolosissimo) della nostra identità personale.

In sé è per sé, il paradosso della nave di Teseo è una faccenda metafisica. Ossia: a definire l’identità di un oggetto sono la sua struttura e la sua funzione, oppure ciò di cui concretamente è fatto? Chi sia tentato di rispondere un bel “E chissenefrega?” di certo non ha una testa da filosofo, però la questione della rilevanza è pertinente.




In realtà, la nave di Teseo (dalla quale, per la cronaca, sì, deriva il nome della nota casa editrice) ci mette di fronte a un problema difficile. Di quelli rognosi, carogne, che tutti ci troviamo ad affrontare per una ragione o per un’altra a un certo punto della nostra vita. E cioè come essere sicuri che, in un contesto in cui tutto muta, gli oggetti, le situazioni e soprattutto le persone restino gli stessi.

Il contenuto del paradosso

Il primo autore pervenuto fino a noi che presenta compiutamente il paradosso per iscritto è il filosofo greco di epoca romana Plutarco (48-127 d.C.). Nel suo Vita di Teseo (fine I-inizio II secolo d. C.), Plutarco espone il paradosso come segue (I, 23).

Teseo ebbe per mare con i compagni molte avventure, prima fra tutte la sconfitta del Minotauro (simbolo della civiltà minoica, che si opponeva all’ascesa dell’Attica). Durante queste, viaggiò sempre sulla stessa nave, che periodicamente necessitava di riparazioni. Le assi marcivano o si rompevano, le vele si squarciavano e venivano poi sostituite con altre. Rientrata definitivamente in porto, poi, la nave di Teseo divenne per gli Ateniesi oggetto di culto almeno fino ai tempi di Demetrio Falereo (350 a. C.). Il popolo ce la metteva tutta, ma non era semplice conservare un’imbarcazione di quel tipo al riparo dalle intemperie e dall’azione impietosa del tempo. A mano a mano che le varie parti si deterioravano, si mettevano al loro posto dei ricambi.

Questo fino a che, nel III secolo a. C., ci si rese conto che ormai l’imbarcazione era del tutto priva delle sue parti originali. I remi impugnati da quei navigatori formidabili, la barra del timone, le vele che avevano issato, le assi che avevano calcato Teseo e i suoi compagni non c’erano più. A quel punto, agli Ateniesi venne da chiedersi se quella potesse davvero ancora dirsi la nave di Teseo oppure no. Ne nacque un accesissimo dibattito. Secondo alcuni, infatti, no: l’autenticità stava nella materia, perciò quella che avevano davanti non era che una copia. Secondo altri, invece, sì, perché a fare l’autenticità era la struttura dell’opera, la sua immagine, e dunque la vera nave poteva dirsi conservata lo stesso.

Chi ha ragione? Secondo Platone…

Eh, mica facile dire chi fosse nel giusto. In effetti, anche se è di Plutarco la prima opera in cui ritroviamo esposto il paradosso, nell’antichità greca se ne discuteva da ben prima. E infatti non sono pochi i filosofi e gli intellettuali che accennano alla nave di Teseo, chi sostenendo una posizione e chi l’altra.

Platone, per esempio, attraverso le sue maschere fece cenno alla nave di Teseo in almeno due sue opere, il Cratilo e il Simposio. Nel Cratilo fa sostenere a Socrate che, essendo una nave un intero complesso composto di molte parti, togliendone poche essa permarrebbe identica. Se, invece, le parti fossero sostituite del tutto, si creerebbe una replica perfetta ma diversa dall’originale. Se poi qualcuno avesse conservato i vecchi legni marci originali riuscendo a farli stare insieme, nemmeno questa sarebbe stata identica all’originale. Infatti, come la replica, essa – essendo tutta rovinata e cadente – avrebbe avuto proprietà diverse dalla nave originale di secoli prima. Nel Simposio, invece, alla sacerdotessa Diotima di Mantinea Platone fa sostenere l’opinione opposta. E cioè che se da un intero complesso si sostituiscono alcune parti, esso non rimane identico a sé stesso. Possiamo dire che esso è identico, ma questo è solo un nostro modo di parlare. Un po’ come quando parliamo dell’identità della specie umana, che rimane la stessa solo grazie alla generazione e alla sostituzione degli individui mortali. Dato che tutto muta e tutto si corrompe, il mutamento e il rinnovamento sono il prezzo da pagare per far perdurare una realtà complessa.

… secondo Aristotele…

Aristotele, dal canto suo, non parla direttamente della nave di Teseo, ma alcune sue argomentazioni nella Metafisica la richiamano da vicino. In quest’opera il filosofo si interroga sull’essenza delle cose, cioè su ciò che rende una cosa quello che è. Ipotizza che possa essere la forma (cioè la struttura), oppure la materia (ciò che la compone), oppure il sinolo (cioè i sue aspetti insieme). Proviamo ad applicarlo al nostro paradosso. Se la nave di Teseo è resa tale dalla sua materia, evidentemente quando vengono sostituiti i materiali che la compongono smette di essere sé stessa. Invece, se è la struttura a identificarla, ecco allora che la sostituzione dei materiali non la rende una replica, ma esattamente la stessa nave. Infine, se la consideriamo globalmente, come forma nella materia, essa rimane ancora la stessa nave, purché i materiali siano del tutto simili agli originali.

… secondo Epicarmo e gli Scettici…

Mentre Aristotele sembrerebbe far propendere per una sostanziale permanenza dell’identità della nave di Teseo, di diverso avviso sono il commediografo Epicarmo e la scuola scettica. Entrambi, infatti, citano indipendentemente la nave di Teseo sostenendo come nessuna identità permanga se muta il sostrato. Detto in altri termini, la nave di Teseo diventa immediatamente qualcos’altro appena viene sostituita una vela squarciata o perfino un chiodo arrugginito.

… e secondo Thomas Hobbes

Il paradosso della nave di Teseo, del resto, non fu discusso solo nell’antichità. Tra i filosofi moderni, quello che se ne occupò con più passione fu Thomas Hobbes, che nel De corpore (1655) lo rese ancora più complicato. E cioè ipotizzò che ogni parte tolta e sostituita dalla nave di Teseo fosse messa da parte e conservata, per poi rimetterle insieme. In questo modo alla fine ci sarebbe stata non più una nave di Teseo ma due. Quella nuova, costruita coi i ricambi a mano a mano, e quella rimessa insieme come un puzzle dalle parti dismesse. A questo punto, però, quale sarebbe delle due la nave di Teseo?

Per rispondere a questa domanda, secondo Hobbes bisogna anzitutto capire che una nave non è un oggetto naturale, ma un artefatto. Ora, un oggetto naturale, come un sasso, è identico a sé stesso se esiste senza alterazioni significative in tempi diversi. Un artefatto, invece, deve soddisfare specifiche condizioni. Più nel dettaglio, esso continua a esistere se le parti che lo compongono sono sempre dello stesso tipo. E se, naturalmente, le parti vecchie e quelle nuove dello stesso tipo non coesistono nello stesso luogo e tempo.

Ora, se riparando la nave di Teseo gli Ateniesi usano legno, tessuti, cordame e chiodi dello stesso tipo, foggia e lavorazione, che succede? Che, secondo Hobbes, la nave costruita sostituendo a poco a poco i materiali vecchi con quelli nuovi è la nave di Teseo. Così come, altrettanto, lo è quella ricostruita rimettendo insieme i materiali dismessi che via via si deterioreranno sempre di più. Lo sono entrambe, perché entrambe rispettano le clausole che Hobbes individua per l’identità numerica di un artefatto.

Perché la nave di Teseo ci riguarda tutti

Ora, quale che sia la soluzione che troviamo più soddisfacente al paradosso della nave di Teseo, è importante capire perché esso ci tocca da vicino. Questo paradosso, infatti, non è un semplice gioco d’ingegno, ma può aiutarci a ragionare profondamente su noi stessi. Perché? Be’, perché ci porta a chiederci a quali condizioni noi possiamo dire davvero di essere noi. Quante volte, infatti, ci è capitato di vederci cambiare, nelle fotografie o allo specchio, con il passare degli anni?

Si stima che ogni secondo nel corpo umano vengano sostituiti dai 10 ai 50 milioni di cellule. E non è tutto: in un adulto, si ritiene che la sostituzione completa delle cellule si compia in un arco di 7-10 anni. In altri termini, nel giro di una decina di anni la materia che oggi ci compone non sarà più esattamente la stessa. Almeno, a livello delle cellule che ci compongono. Eppure, la nostra memoria, i nostri sentimenti, il nostro senso dell’io ci dicono che in qualche modo saremo sempre noi. Tuttavia, forse compiremo delle scelte che non ci sembrano da noi. Cambieremo idea. Tradiremo un ideale o realizzeremo un atto di coraggio.

Insomma, se ci pensiamo come se fossimo noi la nave di Teseo, ecco che la questione diventa decisamente meno peregrina. E la soluzione? Naturalmente, come in ogni dilemma filosofico, una semplice e a portata di mano non c’è. Il mio consiglio è quello di provare a ragionare partendo, magari coi filosofi come alleati, da ciò che ci sembra renderci autenticamente noi stessi.

Valeria Meazza

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