È tempo di Natale e di presepi. Lasciando perdere le abituali polemiche, vale la pena ricordare quanto la rappresentazione della Natività sia ricca di significati (non solo dottrinali). È folklore, ricordi personali, emozione, gusto estetico, insieme di simboli legati alla rinascita. È arte.
Ne parla Giovanni Santambrogio, nel suo volume: Natività. Le più belle rappresentazioni nell’arte (Novara 2005, De Agostini). Il percorso tematico si articola in tre tappe: “Natale Domini”; “Adorazione dei pastori”; “Adorazione dei Magi”. Esse sono precedute da introduzioni storiche.
“Le prime testimonianze sul Natale compaiono nel IV secolo. Fino all’anno 354 la Natività veniva ricordata insieme alla festa dell’Epifania, giorno della manifestazione del Salvatore al mondo intero, simboleggiato dal corteo dei re Magi. Si attribuisce a papa Liberio l’introduzione della data del 25 dicembre, ufficializzata dal calendario come il giorno in cui natus est Christus in Betleem Judaeae. Alcune fonti dicono che già nel 138, al tempo di papa Telesforo, venisse celebrata una messa alla mezzanotte del 24 per attendere la nascita di Gesù, ma le notizie disponibili sono scarse. Il 354 resta il punto fermo. E la scelta del 25 non ha nulla di casuale. Nell’antichità cadeva il solstizio d’inverno; il giorno finiva di accorciarsi e il sole riprendeva a mostrare la sua potenza per imboccare la strada che lo avrebbe portato ai trionfi dell’estate. L’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) aveva eletto quella giornata a festeggiamento del dies natalis Solis invictus, in onore del dio Mitra considerato fonte della luce.” (pp. 8-9)
La cultura del presepe è di matrice francescana: a S. Francesco d’Assisi si attribuisce la scelta di allestire a Greccio, la notte del 24 dicembre 1223, la sacra rappresentazione della Natività. Domenicani e Gesuiti l’avrebbero poi affermata. Tra il Duecento e il Cinquecento, si verificò pertanto una fioritura di opere d’arte a tema natalizio. Com’è noto, esse erano il mezzo per istruire una popolazione perlopiù analfabeta. Le scelte iconografiche avevano dunque motivazioni teologiche.
Ciò non significa che le raffigurazioni della Natività seguano pedissequamente i Vangeli canonici. Le fonti letterarie sono plurime. Includono: la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1228/9 – 1298), raccolta di episodi sulla vita di Cristo e dei santi; il Protovangelo di Giacomo (140/170), sulla vita di Maria e dei suoi genitori; il Vangelo dell’infanzia di Tommaso (metà II sec.) e quello dello Pseudo Matteo (VIII-IX sec.), basato sui due precedenti.
Quest’ultimo, per esempio, descrive la grotta luminosa che fa da sfondo alla nascita di Cristo in tante rappresentazioni: non ultima la Natività di Gentile da Fabriano (1423), custodita nella Galleria degli Uffizi, a Firenze. Un’altra compare nella Natività affrescata a Subiaco (XIV sec.), nel Monastero del Sacro Speco. Essa è simbolo di morte (discesa sotto la terra) e nascita (utero). Nelle grotte, ricorda il curatore del volume, erano condotti gli iniziati a un culto misterico.
L’idea della capanna, come afferma Santambrogio, prese invece piede durante il Medioevo e si affermò nel 1300. Si riferisce alla difficoltà di Giuseppe e Maria (descritta dall’evangelista Luca) nel trovare alloggio a Betlemme. È anche rappresentazione della condizione errante degli ebrei e dell’anima cristiana, che si trova di passaggio sulla terra, in attesa della vita eterna. Fra le tante capanne, ricordiamo quella di Giotto e del suo affresco La Natività di Gesù (1303-1305), nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.
In diverse rappresentazioni, la culla del Bambino ha forma di sepolcro. Nell’Incarnazione, è dunque implicita l’esperienza della morte cui il Dio incarnato andrà incontro. Si veda, ad esempio, la Natività illustrata su una tavola di epoca bizantina: Deisis e le dodici feste (XI sec.), Egitto, Monastero di Santa Caterina. Oppure, una miniatura in un manoscritto latino del XII sec. (Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale).
I pastori, rappresentati con la più vasta immaginazione bucolica, picaresca o realistica, sono le “persone impure” (perché in contatto con gli animali) che hanno il privilegio di conoscere subito il Salvatore. La loro presenza anticipa l’evangelico “gli ultimi saranno i primi”.
Il bue e l’asinello, inesistenti nei Vangeli canonici, compaiono invece in quello dello Pseudo Matteo. Isidoro di Siviglia (560 circa – 636) ne fece l’allegoria di Ebrei e Gentili, riuniti intorno alla nascita di Cristo. Ma questa è solo una delle interpretazioni che ne sono state proposte.
E i Magi? Dal punto di vista iconografico, rappresentano tre età (giovinezza, maturità, vecchiaia) e tre stirpi umane (con tre colori di pelle differenti). Tre (non occorre ricordarlo) sono anche i doni che offrono: l’incenso per il Dio, l’oro per il re e la mirra per l’uomo mortale. Una compiuta descrizione dei tre personaggi (1364) è opera del carmelitano Giovanni di Hildesheim. Nella loro rappresentazione, si sbizzarrisce la fantasia artistica, stimolata dalla ricchezza e dall’esotismo dei personaggi. Abbinati ai propri nomi, compaiono in un mosaico (VI sec.) in Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna.
Erica Gazzoldi