La potenza della narrazione nella copertura mediatica della guerra a Gaza

copertura mediatica della guerra a Gaza

La copertura mediatica della guerra a Gaza svela una realtà sconcertante che riguarda la profonda influenza dei mezzi d’informazione nella formazione delle opinioni pubbliche. In un mondo in cui l’informazione è alla portata di tutti, la narrazione mediatica gioca un ruolo cruciale nel plasmare la percezione del pubblico. E proprio qui, nella discrepanza tra come vengono raccontati e presentati gli eventi, emergono le sfide e i pregiudizi che affliggono la copertura della situazione tra Israele e Gaza.


Il conflitto in corso a Gaza è entrato nella sua terza devastante settimana, con un tragico bilancio di circa 8.000  palestinesi uccisi (impossibile tenere in conto preciso) nei continui bombardamenti israeliani e 1.400 israeliani morti negli attacchi perpetrati dal gruppo di resistenza palestinese, Hamas, nel sud di Israele.

Nel contesto di questa lunga crisi, che di certo non è iniziata solo qualche settimana fa, emerge una profonda discrepanza nella narrazione e nella percezione del conflitto. La copertura mediatica occidentale ha spesso sottolineato l’immoralità dell’uccisione e della brutalizzazione dei civili israeliani, con un particolare riferimento alle azioni di Hamas. Allo stesso tempo, sembra minimizzare le barbarie dei bombardamenti indiscriminati dell’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza, che hanno causato la morte di numerosi civili palestinesi.

Una delle interviste più significative in questo contesto è stata quella di Husam Zomlot, capo della missione palestinese nel Regno Unito. Zomlot ha condiviso il tragico fatto che sette membri della sua famiglia sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani. La reazione dell’intervistatore è stata immediata, con un’espressione di cordoglio e una dichiarazione decisa:

“Non si può perdonare l’uccisione di civili in Israele”.

Ciò che rende questa situazione ancor più complessa è che Zomlot non ha usato la sua tragedia personale come giustificazione per le azioni di Hamas, ma semplicemente ha risposto a una domanda diretta sul destino dei suoi familiari. Vigliaccamente, invece di una disapprovazione verso i responsabili delle morti nella sua famiglia, Zomlot si è ritrovato a dover ascoltare una condanna a coloro che hanno ucciso altri civili.

È interessante notare che durante le interviste a israeliani che hanno subito perdite simili, nessuno ha chiesto loro se avrebbero condannato le azioni del loro governo o avrebbero disconosciuto l’etichettatura del governo verso i palestinesi. Anche se il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha usato termini privi di qualsiasi forma di umanità come “animali umani” per descrivere i palestinesi, non è stato spinto a condannare quanto molti definiscono come un possibile genocidio in corso e l’espulsione dei civili da Gaza.

Queste disuguaglianze e distorsioni nella copertura mediatica della guerra a Gaza mettono in evidenza una realtà spesso offuscata dall’illusione dell’obiettività giornalistica. La verità è che la libertà di scelta dei giornalisti su cosa pubblicare è sempre stata influenzata dai valori e dalla cultura della società in cui operano. Riconoscere questa interazione tra cultura e giornalismo è fondamentale per comprendere pregiudizi radicati nella storia che spesso non vengono riconosciuti.

Nonostante vi sia una chiara censura nei confronti di opinioni che umanizzano i palestinesi o che si discostano dalla linea ufficiale di sostegno incondizionato a Israele, l’etica del giornalismo e i valori morali che lo guidano non sono appannaggio esclusivo dei giornalisti. Sono riflesso delle aspettative della società nei confronti dei media.

La narrazione della tremenda situazione che sta affrontando la Striscia di Gaza offre uno sguardo diretto sulle convinzioni dei giornalisti e sulle culture di provenienza, evidenziando la complessità e i limiti della copertura mediatica. Storicamente, l’antisemitismo e l’islamofobia sono state caratteristiche spesso documentate nel pensiero culturale occidentale. Mentre l’antisemitismo è stato ampiamente condannato dopo l’Olocausto, i discorsi di odio contro gli arabi e contro gli islamici non hanno subito la stessa censura, anzi, spesso sono stati pronunciati e diffusi proprio da chi occupa posizioni di vertice all’interno delle società occidentali.

Un altro fattore significativo riguarda inevitabilmente il potere geopolitico, con Israele come alleato chiave degli Stati Uniti e con una lobby pro-Israele che influenza la politica estera statunitense, e conseguentemente, quella europea. Questi fattori giocano un ruolo significativo nella posizione e nella narrazione che i media propongono quando si discute di Israele e Palestina.

In aggiunta a questa diffusa tendenza, ci sono i giornalisti e mezzi di comunicazione che cercano di mantenere un equilibrio, spesso evitando di prendere parti per timore di pesanti critiche.

La comprensione di queste influenze culturali, politiche ed economiche è essenziale per migliorare la copertura dei conflitti, promuovendo una visione più accurata delle sofferenze umane coinvolte. La netta differenza tra la narrazione di entrambe le parti, con un’evidente attenzione ai dettagli delle vittime israeliane e una minimizzazione delle sofferenze dei palestinesi, mette in luce una profonda disparità nella percezione di questo conflitto.

È evidente che la censura esercitata su opinioni che umanizzano i palestinesi o che si allontanano dal supporto incondizionato a Israele è solo una parte del problema. L’etica del giornalismo e i valori morali dovrebbero riflettere le aspettative della società nei confronti dei media. Tuttavia, sembra che pregiudizi radicati nella storia, insieme a influenze geopolitiche ed economiche, abbiano condizionato la copertura mediatica occidentale.  È innegabile che l’opinione pubblica sia profondamente influenzata dai media, tanto da diventare in molti casi ciò che i media stessi vogliono che sia. Questo fenomeno è ancor più evidente in questi ultimi giorni nei quali la narrazione mediatica gioca un ruolo cruciale nel plasmare la percezione del pubblico.

Il pubblico dovrebbe esercitare un discernimento critico e cercare fonti d’informazione diverse e obiettive per ottenere una prospettiva completa. Solo così si può evitare che la società diventi meramente uno specchio delle scelte editoriali dei media, contribuendo invece a una comprensione più accurata dei complessi problemi globali.

Andrea Umbrello

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