Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
Il premier ultranazionalista Narendra Modi cambia nome all’India e continua il suo processo di “purificazione” del Paese, ora rinominata “Bharat”. Lo scopo è promuovere un’identità nazionale basata sull’etnia e sulla religione indù, eliminando influenze islamiche e cristiane. Nonostante l’opposizione debole, Modi gode di un forte supporto nel parlamento e ha avuto successo sia economicamente che nella politica internazionale. L’India, ora “Bharat”, sta vivendo una crescita economica significativa.
Prosegue il processo di “purificazione” dell’India da parte del premier ultranazionalista Narendra Modi. In occasione del G20 che si tiene questa settimana a New Delhi, gli invitati hanno trovato il nuovo termine “Bharat” al posto di quello vecchio, “India”.
In realtà si tratta di un’antica parola sanscrita, poco nota a livello internazionale, ma già usata in alcuni Stati della Federazione, e che indica la stessa entità territoriale. Modi l’ha introdotta, ufficialmente, per liberare il Paese da ogni reminiscenza coloniale, cercando di cancellare le tracce dell’eredità coloniale britannica.
La motivazione, però, è più complessa, e anche più preoccupante. Com’è noto l’attuale premier sogna una nazione totalmente indù, nella quale l’etnia (e la religione) largamente maggioritaria sia l’unica detentrice del potere e l’unica a fornire i veri caratteri del Paese.
E’ in corso, quindi, il progetto di riscrivere in tolo la storia nazionale, “purgandola” da ogni elemento ritenuto estraneo. A farne le spese non è soltanto l’eredità inglese, ma anche quella di altri conquistatori passati.
Per esempio ogni elemento che riconduca alla dinastia Moghul. Di religione musulmana, essa creò un impero che raggiunse vertici di splendore. Basti pensare al celebre Taj Mahal, capolavoro architettonico situato ad Agra, e voluto dall’imperatore moghul Shah Jahan per onorare la memoria della moglie defunta.
Agli occhi di Modi e del suo partito, il “Bharatiya Janata Party”, diventa però un ricordo sgradito della dominazione islamica. Meglio quindi concentrarsi su simboli che siano puramente indù, e consentano alla popolazione di capire che l’India, o adesso il “Bharat”, ha un’anima che nulla concede a islamismo, cristianesimo o quant’altro.
Non v’è dubbio che, se potesse, l’attuale premier costringerebbe la folta comunità islamica indiana a trasferirsi nel Pakistan o in altri Paesi musulmani. Lo stesso dicasi per la comunità cristiana, pur meno numerosa.
Nel parlamento, che è dominato dal suo partito, Modi non incontra ostacoli. Né è in grado di infastidirlo la debole opposizione, in gran parte erede del Partito del Congresso che fu di Gandhi e di Nehru. Ma quello era un partito che predicava la laicità, la tolleranza e il multiculturalismo, tutti elementi che non trovano più cittadinanza nell’India di Modi.
Il problema è che la Federazione Indiana (o “Bharat”, come si chiamerà d’ora in poi), sta attraversando un periodo di espansione economica che le ha consentito di avvicinarsi al Pil della Repubblica Popolare Cinese, nel frattempo superata anche come Stato più popoloso del mondo. Senza contare il successo dei lanci spaziali con i quali ha oscurato pure la Russia.
Difficile quindi mettere in difficoltà Modi che, tra l’altro, si è dimostrato anche molto abile nella politica internazionale, tenendo i piedi in più scarpe e praticando l’equidistanza tra Oriente e Occidente.