Claude Lanzmann è uno dei documentaristi più apprezzati del panorama cinematografico mondiale. La sua opera più conosciuta, Shoah, è un documentario di più di nove ore sull’Olocausto, considerato come uno dei capisaldi del genere. Con Napalm il cineasta francese non rinuncia a ripercorrere le tracce della memoria, tornando dopo decenni in un Paese in cui il tempo è fermo da più di sessant’anni.
Amore e napalm
Il film racconta la fugace storia d’amore che Lanzmann ebbe con un’infermiera del luogo durante il 1958. Il regista venne scelto come membro delle prima delegazione occidentale autorizzata a entrare nella Repubblica Popolare Democratica di Corea. La guerra tra Corea del Sud e Corea del Nord, avvenuta pochi anni prima, aveva causato milioni di morti tra la popolazione civile. Napalm è l’unica parola che entrambi gli amanti avevano in comune.
Caduti fuori dal tempo
L’aspetto più interessante di quest’opera è la riflessione sul tempo. In Corea del Nord dopo la guerra è avvenuta una chiusura quasi totale nei confronti del mondo esterno. Di conseguenza anche i cambiamenti del tempo ne sono rimasti al di fuori. Attraverso l’occhio ancora profondamente indagatore di Lanzmann però è possibile intravedere il motivo di questa chiusura. Il popolo coreano ha subito perdite devastanti durante la guerra, causata da un meschino gioco di potere tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Questo chiudersi fuori dal mondo assume il senso di un rabbioso rifiuto, per un mondo che a questa gente non ha regalato altro che orrore.
La resistenza del racconto
Verso la fine del documentario la storia diventa del tutto intima. La camera si stringe sul volto di Lanzmann che racconta tutti i dettagli di questa singolare vicenda amorosa, che si rivela molto cinematografica. Ma invece che affidare il racconto alla finzione, il regista predilige l’uso della parola. Al suo pubblico ancora una volta viene richiesto un impegno e una dedizione che forse solo lui durante la sua carriera è stato in grado di pretendere. Ecco che allora la parola Napalm diventa paradossalmente un punto d’incontro, nel suo essere sia uno strumento di morte, sia un’occasione per raccontare se stessi e allo stesso tempo fare luce sulle vicende di una nazione, perse tra le pieghe della storia del Novecento.
Mario Blaconà