Nakba: le radici storiche dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi

Le radici storiche dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi attraverso un approfondimento sulla Nakba. L’esplorazione del passato e le conseguenze di questo evento fondamentale nella storia dell’occupazione israeliana in Palestina.


Dall’autoproclamazione dello Stato d’Israele alla crescita di Hamas

Le radici storiche di un conflitto che ancora oggi continua ad insanguinare lo scenario geopolitico risalgono all’inizio del 1900 quando nuclei di ebrei provenienti principalmente dall’Europa orientale, in particolare dall’Impero russo, dalla Romania e dalla Polonia, cominciano ad emigrare in una terra compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ovvero la Palestina, abitata ormai da molti da secoli da popolazioni prevalentemente di etnia araba (in misura minore anche da cristiani ed ebrei), la quale in quegli anni era ancora parte dell’Impero Ottomano.

Ebrei e arabi sono legati da comuni origini semitiche, dal punto di vista linguistico, l’ebraico e l’arabo appartengono ad un’unica famiglia, quella delle lingue semitiche, ma anche le religioni professate sebbene rappresentino una delle cause di discordia e conflitto, oltre agli interessi territoriali, in realtà hanno elementi comuni. I semiti infatti, secondo la Bibbia, discendono da Sam, uno dei tre figli del patriarca Mosè scampato al diluvio universale, e non a caso, sia la religione ebraica che quella musulmana, riconoscono Mosè come profeta.

Gli arabi a partire dal VI secolo d.c, si espansero dando vita ad un vasto impero che comprendeva territori in Medio Oriente, Nord Africa fino all’Europa, gli ebrei invece, a partire dal 586 a.c dopo la prima distruzione del tempio di Gerusalemme, per volontà del re babilonese Nabucodonosor, si dispersero in varie parti del mondo, sperimentando discriminazioni e segregazione.

Persecuzioni e discriminazioni, che si acuirono fino a culminare nella tragedia umana della deportazione nei lager e dell’Olocausto, spinsero gli ebrei ad emigrare.

Sembra un paradosso, ma proprio gli ebrei-israeliani, vittime di atroci violenze e persecuzioni, pur avendo sperimentato sulla propria pelle cosa significhi lottare per la sopravvivenza, finiranno per replicare il medesimo copione, opprimendo e segregando gli autoctoni arabi-palestinesi.

Ma si sa, la storia è fatta dagli uomini, e come tale è un continuum di ritorsioni, odio, vendette, errori. La storia riflette le medesime dinamiche contraddittorie delle relazioni umane, ma nel processo storico le colpe dei grandi si ripercuotono con estrema violenza sugli ultimi, costretti a pagarne le conseguenze per anni o millenni.

Il sionismo e la colonizzazione agricola della Palestina

Theodor Herzl
Theodor Herzl

Nel 1897 lo scrittore e giornalista austriaco-ebreo Theodor Herzl nel suo scritto “Lo stato ebraico” gettò le basi ideologiche del movimento sionista che teorizzava la costituzione di uno stato ebraico in una colonia europea, per esempio in Africa centro-orientale, o in Argentina. Il fatto che la scelta del luogo cadde proprio sulla Palestina può essere spiegato su basi prettamente religiose: gli ebrei chiamavano la Palestina “terra d’Israele” dal soprannome “Israele” che nella Bibbia Jahvè aveva assegnato a Giacobbe, nipote di Abramo.

Tuttavia, è doveroso precisare che la maggior parte degli ebrei migrarono non tanto per ragioni religiose, ma per sfuggire alle persecuzioni messe in atto dapprima dall’Impero russo degli Zar e successivamente dalla Germania del Reich.

Enormi flussi di denaro provenienti dall’Europa e dall’America favorirono la colonizzazione agricola della Palestina, i coloni ebrei infatti cominciarono ad acquistare terreni dai proprietari arabi-palestinesi impoveriti a causa dei periodi di carestia e crisi economica e costretti a vendere i propri beni per sopravvivere.

Alla fine della prima guerra mondiale, con il crollo dell’Impero Ottomano, la Palestina divenne un mandato (o colonia) del Regno Unito che caldeggiando l’idea di una nazione ebraica in territorio arabo-palestinese agevolò le migrazioni di ebrei. Fin da subito i coloni ebrei non videro di buon occhio gli autoctoni arabi, e difatti, oltre a costruire villaggi chiusi e separati dalle comunità arabe, i kibbutz ebraici, iniziarono a discriminarli e ad escluderli dal lavoro agricolo e dalla possibilità di subaffitto dei terreni, lasciandoli così senza fonti di sostentamento. Come se non bastasse, due organizzazioni terroristiche paramilitari sioniste, Haganah e Irgun, misero in atto intimidazioni e vere e proprie pulizie etniche ai danni delle popolazioni autoctone arabe.

Già nel 1939, le autorità britanniche emanano il cosiddetto “libro bianco” con cui tentano inutilmente di limitare le migrazioni ebraiche in Palestina.

La Shoah

Porta dell’Inferno di Auschwitz

Negli anni ’30 del ‘900 con la salita al potere di Hitler in Germania, in tutti paesi finiti sotto la dominazione nazista, gli ebrei divennero oggetto di gravissime aberrazioni ed atroci persecuzioni che facevano parte di un piano di sterminio tendente all’eliminazione fisica. La storia ci consegna il drammatico ricordo delle deportazioni nei lager, dove gli ebrei erano costretti a lavorare duramente al servizio dell’industria bellica nazista, sfruttati allo stremo, lasciati morire di fame e di sete e nel peggiore dei casi trucidati nelle camere a gas.

Nel 1947 alla fine della seconda guerra mondiale vi erano in Palestina circa 600.000 ebrei, per la maggior parte neo-immigrati, e 1.800.000 arabi palestinesi, davanti ad ondate migratorie sempre più massicce, la Gran Bretagna che dapprima aveva sostenuto la colonizzazione, soprattutto alla luce dei rapporti sempre più tesi tra i coloni ebrei e gli arabi e con l’impennare degli scontri, si oppose dal momento che la situazione iniziava a sfuggirgli di mano anche a causa degli attentati da parte dei gruppi terroristici sionisti contro forze militari e personale diplomatico britannico.

29 novembre 1947: L’ONU emana la risoluzione 181

In seguito alla rinuncia del mandato da parte della Gran Bretagna, le Nazioni Unite deliberarono con la risoluzione 181 la divisione del territorio palestinese in due parti: il 56% della Palestina mandataria, costituita da varie zone unite da piccoli corridoi e per il resto separate tra di loro, sarebbe stata assegnata ai coloni ebrei, il resto sarebbe rimasto agli autoctoni arabi, eccetto la città di Gerusalemme e le zone intorno, le quali sarebbero dovute rimanere demilitarizzate e sotto il controllo dell’ONU. Tale soluzione non venne accolta positivamente dai gruppi terroristici ebraici, come la Banda Stern, che propugnavano la costituzione di una grande nazione israeliana che comprendesse ovviamente Gerusalemme, ma non fu appoggiata nemmeno dagli arabi che costituivano circa il 90 % della popolazione nei territori a loro assegnati ed erano in maggioranza anche nella città di Gerusalemme, in più circa il 50% della popolazione dei territori passati sotto il controllo ebreo era araba. Gli arabi costituivano ovunque una netta maggioranza.

Dalla parte araba-palestinese si susseguirono svariati episodi di scioperi e proteste, dalla parte israeliana, i gruppi terroristici attraverso il piano Dalet, erano intenzionati a stroncare la resistenza autoctona, quindi attaccarono i villaggi arabi per terrorizzare la popolazione e scacciarla dalle proprie case e terre, in modo da ampliare i territori dello stato di Israele in cui creare nuovi insediamenti.

Il massacro di Deir Yassin

Il massacro di Deir Yassin

Il villaggio arabo di Deir Yassin si trovava sulla linea tra Tel Aviv e Gerusalemme che gli arabi-palestinesi avevano occupato in molti punti per tagliare in due le principali comunità israeliane. Il piccolo villaggio di 600 anime rappresentava un luogo strategico che il gruppo terroristico-paramilitare Haganah intendeva conquistare per facilitarsi l’avanzata verso Gerusalemme. Il 9 aprile 1948, i miliziani sionisti degli Irgun e la Banda Stern fanno irruzione reprimendo violentemente la resistenza araba e massacrando 254 palestinesi (secondo i dati della Croce Rossa internazionale). La maggior parte delle persone uccise barbaramente erano civili inermi e disarmati, donne e bambini.

La carneficina di Deir Yassin è ricordata come l’avvenimento storico da cui ebbe inizio la Nakba, ovvero la catastrofe del popolo palestinese, l’esodo verso i campi profughi sparsi nei paesi vicini. Come già accennato, la strategia intimidatoria messa in atto dai gruppi estremisti sionisti consisteva nella pratica del terrore, per mezzo di esecuzioni sommarie e massacri, per costringere intere famiglie autoctone a lasciare le proprie case e i villaggi. Nell’arco di un solo mese infatti il numero di profughi crebbe da 60.000 a 350.000.

Dall’autoproclamazione dello stato d’Israele alla guerra dei sei giorni

Il 15 maggio 1948 mentre le tensioni e gli scontri infuriavano e le trattative tra le due parti erano tutt’altro che concluse, David Ben Gurion proclama unilateralmente e arbitrariamente la nascita dello stato d’Israele, riconosciuta sia dagli USA che dall’URSS.

La lega araba reagì schierando circa 25.000 soldati, provenienti dai paesi vicini, Egitto, Siria, Libano, Giordania, Iraq, che però fin da subito risultarono poco addestrati e scarsamente coordinati tra di loro, dunque non all’altezza delle forze israeliane che invece erano meglio armate e addestrate, contando sul sostegno economico delle potenze occidentali. La resistenza araba incassò una sconfitta dopo l’altra.

Al termine della guerra, gli israeliani occuparono circa il 78% dei territori tra il Giordano e il Mediterraneo, sotto il controllo palestinese rimase solo il 22% che includeva la parte vecchia di Gerusalemme. Inoltre, il territorio rimasto in mano araba non costituiva uno stato ma faceva parte del regno di Transgiordania, al di là del Giordano.

Con la Nakba, 750.000 palestinesi furono espropriati delle loro case e costretti a dirigersi a piedi, senza acqua né cibo, verso i campi profughi in Siria, Libano, Cisgiordania ed Egitto.

Guerra dei sei giorni

Nel 1967, dopo appena sei giorni di combattimenti, Israele inflisse una nuova disfatta alla coalizione araba composta da Siria, Giordania ed Egitto ed occupò militarmente tutta la terra tra il Giordano ed il mare, compresa la parte araba di Gerusalemme (Gerusalemme est). Cisgiordania, Gaza, alture del Golan, Sinai e tutta la città di Gerusalemme, dichiarata eterna ed indivisibile capitale dello stato ebraico, passarono sotto il controllo israeliano. Gli arabi-palestinesi persero anche il 22 % dei territori assegnategli nel 1949. Altri 300.000 palestinesi furono costretti sotto la minaccia delle armi ad abbandonare le loro case proseguendo l’esodo della Nakba.

Dopo la vittoria israeliana in quella che possiamo definire una guerra di conquista in piena regola, si intensificarono sgomberi forzati e requisizioni di case e campi palestinesi, al fine di assegnarli ai coloni israeliani o demolirli per lasciare spazio a nuovi insediamenti coloniali. L’ONU attraverso varie risoluzioni condannò la gestione dei territori palestinesi da parte di Israele, in particolar modo per quanto concerne l’assegnazione di terreni in Cisgiordania ad uso esclusivo dei coloni israeliani.

La nascita dell’OLP

Lo stato d’Israele aveva instaurato in Palestina un sistema di dominazione che mirava ad esercitare il controllo arbitrariamente su territori che non erano di sua competenza e pertinenza, dal momento che l’ONU per mezzo delle sue risoluzioni gli aveva negato tale facoltà. Il popolo palestinese si ritrovava così sradicato dalla propria terra, dalla propria casa, senza uno stato, relegato nei campi profughi in Libano o Giordania. Anche i paesi vicini che inizialmente avevano combattuto accanto alla Palestina, più per desiderio di potenza che per genuino interesse a supportare la causa palestinese, arrivarono a stipulare degli accordi di pace con Israele. In assenza di uno stato, i palestinesi diedero vita ad una struttura privata che doveva fungere da tramite nelle relazioni diplomatiche con lo stato d’Israele, ovvero l’OLP guidata da Yasser Arafat. A causa dell’ostilità di Israele, restia a riconoscerla, i suoi membri per poter continuare ad operare si videro costretti a rifugiarsi in Tunisia. Nel 1970, in Giordania, in risposta alla repressione e uccisione di un gran numero di palestinesi da parte del regno giordano, nacque all’interno dell’OLP un movimento di resistenza, laico e nazionalista, ovvero “Settembre nero”, divenuto protagonista il 5 settembre 1972 dell’attacco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera, in cui 11 atleti israeliani vennero uccisi. Non riuscendo ad ottenere risultati a causa dell’isolamento internazionale, l’OLP tentò la via del terrorismo per far sì che le rivendicazioni palestinesi venissero prese sul serio e sollecitare un intervento contro le prevaricazioni e gli abusi dello stato d’Israele.

La prima Intifada

Con la risoluzione 446 del 1979 l’ONU ha negato la validità giuridica degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, considerandoli peraltro un grave ostacolo per il raggiungimento della pace tra le due parti in causa.

All’inizio degli anni ’80 la spinta coloniale israeliana, quindi l’inarrestabile imposizione di insediamenti abusivi nei territori palestinesi occupati illegalmente, le requisizioni delle case agli autoctoni per consegnarle ai coloni israeliani e le deportazioni forzate, esacerbarono gli animi dei palestinesi alimentando frustrazione e disperazione.

Nel 1987 un episodio fece detonare la rabbia ormai diffusa tra i palestinesi portando a quella che venne definita come la prima Intifada (sussulto).

prima Intifada

Proviamo a ricostruire la cronologia degli avvenimenti: Due giorni dopo l’accoltellamento di un israeliano in un mercato di Gaza, un mezzo delle forze armate israeliane tamponò un un’auto su cui viaggiavano quattro palestinesi provocandone la morte, presto nel vicino campo profughi di Jabalya si diffuse la voce secondo cui, quello che inizialmente sembrava un incidente stradale, in realtà fu un atto intenzionale di ritorsione per ciò che era accaduto qualche giorno prima a Gaza. I profughi ormai al limite dell’esasperazione, attaccarono con ogni mezzo di cui disponevano le forze di difesa israeliane che presidiavano il campo costringendoli a retrocedere. Dal campo di Jabalya questo impeto di rivalsa si propagò in diversi territori occupati, la risposta israeliana fu molto violenta: nei primi sei mesi dell’Intifada rimasero uccisi circa 1.100 palestinesi, non solo miliziani, ma anche donne e bambini.

La famosa immagine del ragazzo con la Kefiah sul viso che lancia dei sassi contro i carri armati palestinesi divenne il simbolo di uno scontro ad armi impari tra Davide e Golia. Israele disponeva infatti di un esercito organizzato e addestrato, nonché di carri armati e armi sofisticate, i profughi palestinesi erano armati solo di pietre, del loro anelito di libertà e voglia di rivalsa.

L’ONU condannò l’intervento spropositato dello stato israeliano contro i manifestanti, soprattutto in considerazione del netto sbilanciamento nei rapporti di forza. La situazione si complicò ulteriormente in seguito all’uccisione da parte di Israele di un componente dell’OLP che si trovava a Tunisi, dall’altro lato, i palestinesi come forma di protesta iniziarono a rifiutarsi di pagare le tasse al regime israeliano, che in primo momento utilizzò solo la multa come strumento punitivo, ma in seguito passò ai soliti metodi repressivi e violenti, infatti le forze di difesa d’Israele distrussero le case e i beni dei palestinesi che non avevano pagato le tasse.

Il clima divenne sempre più contaminato da ritorsioni e vendette da entrambe le parti. Diventava urgente e necessaria una soluzione diplomatica; Israele dovette fare i conti non solo con un ingente sforzo economico per il mantenimento di un esercito in grado di gestire le rivolte palestinesi, ma anche con il boicottaggio delle merci e del turismo, scoraggiato dalle continue rivolte. Dal canto loro, i capi dell’OLP si resero conto che non riuscendo a portare risultati a vantaggio della causa palestinese, nonostante gli spargimenti di sangue, stavano perdendo consensi tra i palestinesi, i quali iniziavano a rivolgersi ad altre organizzazioni come Hamas.

A Madrid nel 1991, Usa e URSS organizzarono una prima conferenza con l’intento di mediare tra le due parti in causa, ma se da un lato gli israeliani non avevano alcuna intenzione di perdere gli insediamenti creati abusivamente nel territorio della Palestina, dal lato palestinese, c’erano molte resistenze contro il riconoscimento dello stato d’Israele e le stesse risoluzioni dell’ONU che ponevano la costituzione di due stati separati come condizione per la pacificazione.

Gli accordi di Oslo

Shimon Peres, Bill Clinton e Yasser Arafat

Nel 1993 a Oslo Yasser Arafat e Shimon Peres siglarono alla presenza del presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, degli accordi che si fondavano sul reciproco riconoscimento dello stato di Israele e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e miravano favorire la costituzione di un’autorità nazionale palestinese, ovvero l’OLP, a cui concedere la sovranità sulle terre a maggioranza araba. Il che comportava, almeno teoricamente, la perdita del controllo da parte d’Israele sui territori occupati illegalmente in precedenza e una graduale riassegnazione ai palestinesi di tutte e tre le aree in cui la Cisgiordania era stata divisa.

Negli anni che seguirono gli accordi di Oslo, gli israeliani lasciarono progressivamente la striscia di Gaza, pur controllando ancora spazio aereo, acque territoriali, anagrafe, off-shore marittimo, ingresso degli stranieri, importazioni ed esportazioni e sistema fiscale.

A Gerusalemme, considerata capitale dello stato e annessa unilateralmente nella parte est nel 1967, attuano sostituzioni di cittadini arabi con cittadini israeliani mediante sfratti, espulsioni, costruzioni di nuovi edifici.

La Cisgiordania risulta così suddivisa:

L’area A posta sotto il controllo politico e militare palestinese e comprende le città di Ramallah, Gerico, Betlemme, Gaza (pur non essendo controllata dalle autorità palestinesi).

L’area B costituita interamente da villaggi agricoli palestinesi ma è controllata militarmente da Israele nonostante si applichino le leggi civili palestinesi.

Queste due aree sono definite “isole” in quanto risultano separate da infrastrutture e insediamenti illegali israeliani dall’area C.

L’area C comprende la porzione di territorio più vasta e prospera posta interamente sotto il controllo d’Israele. I villaggi palestinesi mancano dei servizi di base e dei collegamenti alla rete idrica a differenza degli insediamenti illegali israeliani.

Sui palestinesi in Cisgiordania gravano pesanti restrizioni per quanto riguarda la circolazione di merci e persone, imposte da Israele con la motivazione della salvaguardia della sicurezza nazionale. Misure restrittive come posti di blocco e limitazioni d’accesso a terreni agricoli, risorse naturali, servizi essenziali, quali l’istruzione pubblica e l’assistenza medica relegano i palestinesi a condizioni di grave povertà ed emarginazione sociale, per citare lo stesso esempio dell’ONU, se i coloni israeliani hanno accesso quotidianamente a circa 320 litri d’acqua al giorno, i palestinesi residenti nelle prime due aree (A e B ) hanno diritto a 75-100 litri d’acqua al giorno, mentre quelli residenti nell’area C meno di 50 litri.

Gli accordi di Oslo erano stati approvati dal Parlamento israeliano con una strettissima maggioranza, le fazioni di estrema destra infatti non accettavano la perdita del controllo militare su alcune aree palestinesi.

Anche tra i palestinesi, Hamas, gruppo integralista islamico e di estrema destra, non ammetteva il fatto che gli israeliani mantenessero il controllo su parte dei territori palestinesi e si prefissava invece l’obiettivo di continuare la lotta armata fino all’annientamento dello stato d’Israele, che difatti si rifiutava di riconoscere.

Le fazioni estremiste da entrambe le parti minarono inevitabilmente le basi degli accordi di Oslo destabilizzando ogni tentativo di dialogo e istigando il popolo alla violenza degli scontri.

La violenza e l’odio generano sempre altra violenza e altro odio come dimostrano gli avvenimenti successivi.

Nel 1994 a Hebron un estremista israeliano fece irruzione in una moschea e uccise un gran numero di musulmani. La strage di Hebron o della grotta dei patriarchi, provocò 60 morti, di cui 29 nella sola moschea della città, altri 26 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano e 5 israeliani uccisi dalla folla.

L’anno successivo Isac Rabin, ex primo ministro israeliano e simbolo degli accordi firmati due anni prima, venne ucciso da un fanatico israeliano.

Ma anche dal lato palestinese non mancarono attacchi suicidi contro obiettivi civili israeliani, come fermate degli autobus e locali notturni.

La seconda Intifada

Gli intenti prefissati ad Oslo rimasero solo buoni propositi campati in aria. Nel 2000, nonostante gli accordi stipulati pochi anni prima, dunque la situazione tornò a complicarsi ulteriormente, da un lato l’espansionismo coloniale israeliano nei territori palestinesi non intendeva arrestarsi, soprattutto a ridosso delle elezioni, dall’altro Arafat rifiutò un accordo che prevedeva di far rientrare una parte di profughi nelle loro terre e di risarcire un’altra parte.

Seconda Intifada

Il 28 settembre 2000 un casus belli riaccese la rabbia dei palestinesi: Ariel Sharon, capo del partito nazionalista di destra liberale, compì infatti un atto provocatorio decidendo di fare una passeggiata alla Spianata delle Moschee, accompagnato dalle forze israeliane in tenuta antisommossa e da altri componenti del suo partito, strenui oppositori delle concessioni fatte ai palestinesi.

Nei giorni seguenti scoppiò quella che storicamente è nota come la seconda Intifada: si verificarono rivolte con lanci di sassi da parte dei palestinesi contro l’esercito israeliano.

Inizialmente il governo israeliano tentò la mediazione che tuttavia si interruppe quando nel 2001 Ariel Sharon vinse le elezioni diventando primo ministro, un anno dopo diede subito prova della sua linea politica repressiva e per niente incline a trattare, attraverso l’operazione “scudo difensivo”. L’esercito israeliano mosso dall’intento di soffocare la resistenza dei miliziani palestinesi. attaccò a tutto spiano diverse cittadine in Cisgiordania, uccidendo un gran numero di civili. A Ramallah, cittadina controllata dai palestinesi, lo stesso capo dell’Olp Arafat fu costretto a barricarsi in casa fino alla sua morte avvenuta nel 2004.

Un’altra decisione eclatante assunta da Sharon contribuì ad avvelenare ancora di più i rapporti tra le due parti.

Nel 2002 avviò la costruzione di un muro di cemento alto 8 metri che avrebbe dovuto separare Israele e Palestina, impedendo (dal punto di vista israeliano) il passaggio di armi e terroristi da una parte all’altra.

Il muro divisorio, fornito di torrette da dove i soldati israeliani, o armi telecomandate, potessero sparare su chiunque cercasse di oltrepassarlo, è l’esemplificazione della chiusura verso ogni tentativo di dialogo e punto d’incontro. Rappresenta una provocazione nonché un’ulteriore occupazione abusiva delle terre palestinesi visto che per l’85 % venne costruito all’interno del territorio della Cisgiordania.

Nel 2005 Abu Mazen, tra i fondatori della fazione laica Al-Fatah, divenne presidente dell’Olp, e dell’Autorità Nazionale palestinese, tuttavia, l’anno successivo a sorpresa alle elezioni prevalse il movimento estremista e nazionalista, Hamas, contrario a qualsiasi mediazione con Israele, ma intenzionato a distruggerlo. Il nuovo governo non venne riconosciuto da Israele e Stati Uniti ma nemmeno dalla stessa Olp. Nel fronte palestinese si arrivò così alla lotta interna per il controllo della Palestina, tra Al-Fatah e Hamas. Gli scontri portarono alla vittoria di Hamas e all’espulsione dei seguaci di Fatah, il territorio palestinese venne diviso in due parti: la striscia di Gaza roccaforte di Hamas, e la Cisgiordania posta sotto il controllo di Abu Mazen e dell’Olp.

Nel 2009, Israele con l’operazione “piombo fuso” provocò un gran numero di vittime tra i civili palestinesi, infatti, per cercare di colpire il movimento Hamas, attaccò i suoi centri di potere e le zone da cui partivano razzi e granate contro i territori israeliani e impose su Gaza, già dal 2007, un blocco che investiva le linee elettriche, le forniture d’acqua e l’afflusso di cibo e farmaci, tali misure restrittive finirono in realtà per accrescere il sostegno popolare ad Hamas e inasprire i suoi metodi di lotta, che divennero sempre più violenti.

Israele con la sua linea politica repressiva creò terreno fertile alla crescita di questo movimento estremista che seppe giocare molto bene le sue carte cavalcando l’onda della rabbia popolare contro il colonialismo israeliano che aveva usurpato le terre palestinesi e affamato la popolazione. Un popolo, a cui si toglie la terra da sotto i piedi, si sottrae l’acqua per lavarsi e il cibo per sfamarsi, si affida anche agli dei degli inferi pur di liberarsi e riscattarsi.

Usurpare i territori palestinesi e imporre arbitrariamente un sistema di repressione e segregazione, non dissimile dall’apartheid, ha creato le condizioni ideali per il dilagare della disperazione più nera.

La disperazione porta all’odio, quindi crea terreno fertile per l’insorgere della violenza e del terrorismo.

Hamas ha fatto leva proprio su questa disperazione per affermarsi prendendo in mano le redini della resistenza e imprimendogli una direzione sanguinaria.

 

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