Myanmar: il capo del regime accusato dalla Corte Penale

Myanmar: il capo del regime accusato dalla Corte Penale

Myanmar: il capo del regime accusato dalla Corte Penale

Un mandato d’arresto per il leader della giunta militare in Myanmar, accusato di crimini contro la popolazione Rohingya, da parte della Corte penale internazionale con sede all’Aia. Al centro delle accuse della CPI contro il capo della giunta militare del Myanmar c’è la persecuzione e la deportazione illegale di membri della comunità Rohingya, oggetto di una campagna militare che è stata definita dalle Nazioni Unite “una pulizia etnica da manuale”. Da parte sua, la giunta militare del Myanmar ha respinto le accuse e ha ricordato che il Paese non è uno Stato membro della Corte penale internazionale.

Dopo quattro anni di indagini, il procuratore Karim Khan ha formalmente richiesto un mandato di arresto per Min Aung Hlaing, primo ministro e comandante in capo delle forze armate del Myanmar. L’accusa include gravi crimini (considerati crimini contro l’umanità) di deportazione e persecuzione nei confronti della minoranza Rohingya. Tale richiesta si inserisce in un contesto segnato da anni di violenze brutali contro i Rohingya, una comunità prevalentemente musulmana perseguitata nel paese asiatico.




Si tratta della prima richiesta di mandato di arresto contro un alto funzionario del governo birmano, anche se il procuratore ha annunciato che “ne seguiranno altri”. Ora i giudici dovranno decidere se emettere il mandato d’arresto come richiesto dalla Procura. Dal 2019 la procura indaga sui presunti crimini commessi durante le ondate di violenza del 2016 e 2017. Quasi un milione di persone sono state costrette a fuggire in Bangladesh per sfuggire a quella che è stata definita una campagna di pulizia etnica che prevede stupri di massa, omicidi e incendi di case.

Le autorità del Myanmar si sono sempre rifiutate di riconoscere i Rohingya come una delle 135 minoranze etniche ufficialmente riconosciute, definendoli invece “bengalesi”, un termine che implica la loro presunta origine straniera e l’immigrazione illegale dal Bangladesh. Questa negazione di cittadinanza ha esacerbato una discriminazione radicata, lasciando i Rohingya senza protezioni legali e vulnerabili a gravi abusi.

Le accuse di genocidio

L’operazione, scatenata nell’agosto del 2017 in risposta ad attacchi di militanti Rohingya, è stata descritta come un caso esemplare di pulizia etnica e genocidio. L’ONU stima che nel corso di questa campagna “di pulizia etnica con segni di genocidio“, conclusasi con oltre 740.000 Rohingya in fuga Nei campi profughi del vicino Bangladesh sono state uccise almeno 10.000 persone

L’inchiesta si basa su testimonianze e prove raccolte negli ultimi anni. Un contributo fondamentale è giunto dall’Independent Investigative Mechanism for Myanmar (IIMM), un organismo istituito dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 2018 per raccogliere informazioni e prove utili alle indagini. La Procura ha espresso in un comunicato la “profonda gratitudine” nei confronti della comunità Rohingya, costretta a fuggire in massa di fronte alla persecuzione con “intenzioni genocide” da parte dei militari.

La questione Rohingya non è solo una tragedia umanitaria, ma anche un simbolo della fragilità del diritto internazionale nel prevenire atrocità di massa. L’intervento della CPI rappresenta un tentativo di invertire questa tendenza, nonostante le limitazioni strutturali e la resistenza politica.

La decisione della CPI è stata accolta con favore da organizzazioni per i diritti umani e da esponenti politici, che hanno sottolineato l’importanza di spezzare il ciclo di impunità nel Paese. Maria Elena Vignoli di Human Rights Watch ha definito la richiesta “un passo cruciale per garantire giustizia ai Rohingya e porre fine alle atrocità in Myanmar“. Zin Mar Aung, ministro degli Esteri del governo d’unità nazionale del Myanmar – una coalizione di opposizione nata dopo il colpo di Stato del 2021 – ha fatto eco a queste opinioni, chiedendo ai giudici della CPI di procedere rapidamente.

Il ruolo della CPI e i limiti geopolitici del Myanmar

La CPI ha una presenza limitata nel Sud-Est asiatico, dove solo Cambogia e Timor Est hanno aderito allo Statuto di Roma. Questo riduce drasticamente le possibilità che i paesi della regione arrestino Min Aung Hlaing, soprattutto considerando le norme regionali contro l’interferenza negli affari interni di altri stati. Anche a livello globale, le dinamiche geopolitiche giocano un ruolo cruciale. Stati come Russia e Cina, che hanno stretti legami con il Myanmar, non sono membri della CPI e probabilmente ignoreranno qualsiasi mandato d’arresto. D’altra parte, paesi più inclini a collaborare difficilmente avranno l’opportunità di agire, poiché è improbabile che Min Aung Hlaing si rechi in giurisdizioni ostili.

La possibilità di assicurare Min Aung Hlaing alla giustizia dipende in gran parte dagli sviluppi interni al Myanmar. La giunta militare sta affrontando una crescente resistenza interna, con pesanti sconfitte che hanno indebolito il suo controllo su vaste aree del paese. Se l’opposizione dovesse prevalere o un colpo di stato interno rimuovesse il generale dal potere, si potrebbe aprire uno spiraglio per il suo trasferimento alla CPI. Tuttavia, questo scenario rimane speculativo e distante.

La richiesta di mandato di arresto per Min Aung Hlaing pone l’accento sull’importanza dell’azione collettiva. Organizzazioni per i diritti umani e governi di tutto il mondo sono chiamati a sostenere la giustizia per i Rohingya, non solo attraverso il rispetto delle decisioni della CPI, ma anche mediante sanzioni, pressioni diplomatiche e supporto ai rifugiati. Mentre i tribunali internazionali giocano un ruolo cruciale nel perseguire i responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, l’esecuzione effettiva delle loro decisioni dipende dall’impegno dei governi e dalla volontà politica.

 

 

Felicia Bruscino

Exit mobile version