Il 6 febbraio si è celebrata la giornata contro le mutilazioni genitali femminili (FGM), un fenomeno diffuso in molte parti del mondo, sopratutto in contesti rurali e molto poveri.
Oltre a comportare conseguenze gravi a livello medico come infezioni dell’apparato genitale-urinario e complicazioni durante la gravidanza e il parto, si tratta di un atto di violenza e sopruso verso le donne e le bambine mascherato da usanza culturale: invece si tratta di uno strumento di controllo sul corpo femminile e quindi sulla donna come individuo. La mutilazione ha degli effetti concreti sulla vita sociale delle donne, in quanto considerata un rito di passaggio: una donna non mutilata viene spesso discriminata e marginalizzata dalla comunità e anche manifestare dolore durante la cerimonia di mutilazione è considerato segno di debolezza. Il problema è in primo luogo culturale ed è sotto questo aspetto che è necessario lavorare.
Sebbene le campagne di sensibilizzazione e le proteste abbiano portato come risultato delle leggi severe contro la pratica delle mutilazioni genitali femminili, in molti paesi non è stato e non è sufficiente, perché le disuguaglianze rimangono, senza che vi sia un’alternativa. In questo contesto, le mutilazioni genitali sembrano essere l’unica via per avere una vita dignitosa in seno alla società.
La protesta di Sylvia Yeko
Questo è il motivo che ha spinto Sylvia Yeko a farsi mutilare insieme ad un’altra ragazza quasi un mese fa in una cerimonia pubblica: la 26enne ugandese infatti ha compiuto questo atto non solo per poter essere accettata dalla comunità locale, ma anche come gesto di protesta contro lo stato, colpevole di non aver portato avanti delle politiche che contrastassero l’esclusione sociale delle donne non mutilate. Questa scelta non è stata approvata dalla famiglia di Sylvia, che ha sempre rifiutato la mutilazione genitale. Ma la giovane, che ha seguito un percorso di studi universitari, ritrovandosi nonostante i suoi sforzi senza un lavoro, marginalizzata per la sua condizione di non mutilata e sentendosi abbandonata dalle istituzioni, ha scelto di farsi mutilare.
Riferendosi alla vicina scuola elementare, Sylvia sottolinea come paradossalmente essa sia nata per garantire il diritto all’educazione a tutti e proprio in seno alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili, ma che nella realtà la retta di 90 dollari richiesta tagli fuori coloro che maggiormente ne avrebbero più bisogno, mantenendo un iniquo status quo in una regione molto povera come il Kween, al confine con il Kenya:
Farebbero meglio a riprendersi indietro la loro scuola perché non ne traiamo alcun beneficio da essa, né ne ricaviamo nulla.
A questo si aggiungono tutte le restrizioni sociali a cui sono sottoposte le donne non mutilate, come il divieto di recarsi in luoghi comuni, influendo sulle condizioni di vita di queste persone. Questa discriminazione ha anche un riscontro nella percezione dell’individuo nella società: una donna mutilata è considerata e trattata come un bambino, dato che agli occhi degli altri lei non è mai diventata adulta.
Questo caso dovrebbe far riflettere sull’importanza di una fase costruttiva in un processo di cambiamento sociale, che segua e riempia i vuoti lasciati dalla fase distruttiva, soprattutto se una pratica inumana come le mutilazioni genitali femminili sono un importante tassello nelle società rurali e regolano la vita delle donne che in essa vivono: la creazione e l’applicazione della legge dovrebbe accompagnarsi ad iniziative che davvero cambino il sistema alla radice, per impedire che si creino situazioni al limite del paradosso. Un esempio positivo in questo senso è l’attività svolta nella comunità Masai , in cui veniva praticata l’infibulazione come rito di passaggio, da Nice Nailantei Leng’ete.
Barbara Milano.