Finalmente le mutilazioni genitali femminili sono un reato anche in Sudan. Il governo vieta tutte le pratiche con pene fino a tre anni di carcere.
Il divieto sulle mutilazioni genitali femminili è stato inserito in un emendamento al Codice penale dal governo provvisorio del paese, in carica da ormai un anno dopo un trentennio di dittatura di Omar Hassan al-Bashir.
“Un grande passo per il Sudan e per il suo nuovo governo”
Commenta Nimco Ali, co-fondatore di The Five Foundation, associazione che dal 2018 si occupa di lottare contro questa piaga sociale.
Gli esperti avvertono che, molto probabilmente, una sola legge non sarà sufficiente per porre fine ad una pratica così terribile e così ben radicata nel paese. Paese in cui le Nazioni Unite stimano che circa nove ragazze su dieci siano state vittime mutilazioni genitali femminili.
La pratica della mutilazione si basa, purtroppo, su un forte credo, culturale e religioso, ed è considerata un vero e proprio pilastro nel percorso di formazione di ogni donna. Ne è un esempio l’Egitto, paese in cui – secondo le Nazioni Unite – il 70% delle donne è vittima di questi orrori, nonostante la pratica sia vietata dal 2008.
Non si deve, comunque, tralasciare l’importanza e l’immenso valore di un tale passo in avanti, per cui ciò che conta è che anche il Sudan si aggiunge ufficialmente alla lista dei paesi che vietano le mutilazioni genitali femminili e dice basta a queste orrende pratiche.
Cosa si intende per mutilazioni genitali femminili?
Le mutilazioni genitali femminili, spesso indicate con l’acronimo MGF, rappresentano un fenomeno incredibilmente diffuso, che include tutte quelle pratiche di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni.
Vengono solitamente praticate su ragazze molto giovani, in piena età evolutiva, tra i 4 e i 14 anni e non mancano i casi in cui ad essere operate sono bambine con meno di un anno di vita.
Ad eseguire la pratica è spesso una donna, un’ostetrica o più frequentemente una levatrice tradizionale, tramite strumenti rudimentali, come lamette da barba o coltelli, e senza l’uso di alcun tipo di anestetico.
La buona riuscita dell’operazione non è scontata ed è direttamente proporzionale al “professionista” che la famiglia della ragazza può permettersi economicamente.
Le conseguenze sono irreversibili, sia a breve che a lungo termine e compromettono tanto il fisico quanto la mente. Per citarne solo alcune: sepsi e infezioni, infertilità, difficoltà nei rapporti sessuali, complicazioni durante il parto, che possono portare anche alla morte della donna e aumentato rischio di decessi neonatali.
Alla base ci sono convinzioni ideologiche, religiose e sociali. Un vero e proprio rito di iniziazione all’età adulta, utile a mantenere la coesione all’interno della comunità, a soggiogare la donna e le sue pulsioni e a ridurre la scabrosità dell’organo riproduttivo femminile, in piena osservanza – secondo chi lo pratica – dei testi religiosi.
È ciò che vuole la tradizione, un percorso di evoluzione che rispetta pienamente i principi della propria cultura.
Cosa si è fatto negli anni per combattere il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili?
Nonostante sia riconosciuta come violazione dei diritti umani a livello internazionale, molti paesi sono ancora afflitti da questa piaga: Africa, Medio Oriente, Asia, America Latina… in alcuni stati del Corno d’Africa, l’incidenza del fenomeno è altissima e tocca percentuali pari al 90% della popolazione femminile.
Spesso, si è a conoscenza di casi di mutilazione genitale femminile anche in Occidente, in Europa, Canada e Stati Uniti. Tutti casi difficili da registrare e da censire, proprio perché avvengono nell’illegalità più assoluta.
Negli anni, il Parlamento europeo ha dimostrato forte impegno per aiutare a eliminare, o almeno a ridurre, la pratica nel mondo:
“Cosa diremmo se si trattasse di nostra madre, nostra sorella, nostra moglie? Dobbiamo essere la voce di quelle donne che non possono parlare per se stesse”
Afferma con convinzione Frances Fitzgerald, membro del Partito Popolare Europeo, in occasione del dibattito in Parlamento del 18 dicembre 2019.
Sono pratiche molto frequenti in paesi in cui le donne faticano a raggiungere posizioni di rilievo. Gli stessi paesi in cui la figura femminile è generalmente relegata alla gestione della casa e della famiglia. A questa condizione sociale, vi si aggiunge la convinzione religiosa, secondo cui è bene arrivare vergini al matrimonio ed è bene intervenire per preservare e proteggere quella condizione.
L’elemento paradossale è, però, il fatto che siano spesso le donne ad occuparsi di queste pratiche.
Per questo motivo si rende necessario l’impiego di piani educativi ad accompagnare le leggi di divieto. Lo scopo è quello di un vero e proprio cambiamento di attitudine da parte anche delle dirette interessate. Insomma, l’informazione deve essere la chiave di questa battaglia.
Solo così, saranno sempre di più le donne, come Sylvia Yeko, a voler far sentire la propria voce.
Fortunatamente, anche il caso del Sudan è di buon auspicio. La vicenda lascia intravedere un buon margine di miglioramento, nella speranza di un futuro migliore per le donne dell’Africa e di tutto il mondo.
Giorgia Battaglia